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Memorie di vita aliese_2
 
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nr.1

”Lu triali era lu nostru roggiu”


Truvànnumi davanti a la Matrici, una sera, prossima all'Assunta, facevo crocchio, prima dello Stellario, con vecchie conoscenze, aspiranti, angioletti e fiamme bianche, ormai rispettabili per coppola e canizie, allorché, portando gli occhi, in alto, come spesso capita, alla grande circonferenza tempus circumscribentem, me la vidi inibita, a causa di carmarasali interagenti con lancette, e chiesi l'ora a Ninu Cardinali, persona acconcia, per nome e per talento, a darti un orientamento, sia in senso temporale, che in senso spaziale, il quale, prima di ricorrere al suo panettoncino tascabile, rivolse gli occhi, anche lui, e con analoghe sensazioni, dalla parte dell'orologio della Matrice, e poi, verso l'oriental celeste settore, accompagnando il movimento con l'apostrofe di autocompatimento verso se stesso: - O Ninu, chi cierchi lu Triali?!...

Il digitante, distratto, ormai, dal riscuotere l'ora da parte del nostro, a causa dell'accattivante, misteriosa, importante, espansione diretta del suo verbo, era, già, concentrato nel chiederne ragione al responsabile, se Nardu e Larienzu glielo avessero consentito... Cosa che, per fortuna, avvenne, essendo stati zittiti i due, per quanto buoni e saggi conoscitori di cose nostre, da una sorprendente ignoranza, simile alla mia, su ciò cheTriali fosse e che spingeva me a svelarla, loro a mascherarla.

Ma non sono stato, io, così lesto, nel domandar, quanto Nino nel rispondere... Sì che potei sperimentar di persona quel che il trisavolo Cacciaguida predice al pronipote Dante circala cortesia, nei suoi confronti, del gran Lombardo, /ch 'in tè avrà sì benigno riguardo, / che del fare e del chieder, tra voi due , /fu primo quel che tra li altri è più tardo./;

Lu Triali era lo nostru roggiu, quannu scuràvamu nna ll'arii, nna li stanzii, nna li pagghiara, ed eranu tri stiddi chi si virìanu iauti nna lu cielu, di la parti d'unni spunta lu suli, e nni dicìano ca lu iuornu, nun era luntanu, e, secunnu lu tiempu, pigghiàvamu la fauci, di nna li vièrtuli, pi mètiri, o cuminciavamu a carriari gregni, cu muli e stravuli, nna ll'arii, e nni priparàvamu pi la granni 'mprisa di la pisatura... Digiti Triali et reviviscit, grazie alla memoria di lu zzi Ninu, un mondo, che sembrava sepolto, equivalente a non so quanti computers e a non so quanti providers....

Il longilineo e dinoccolato Gary Cooper nostrano, se lo metti a fuoco, con la mia camera, più volte e in tempi diversi, sul set della mezza costa occidentale di la Montagna, quella sovrastata dal Pizzo di Garibaldi, bianca giumenta o cavallo bianco, a co di bianco sentiero, inclusi nel campo visivo, ti apparirà come particolare o tutto di affresco di questo o di quel pittore, secondo l'ora, la stagione o il mutare repentino del tempo, come quando cala, improvvisa, silente, e se non la vedessi, la sentiresti nelle ossa, la negghia tirrana, per toccare e compenetrar di sé sempre più basse altitudini, quali Sauchi, Chianchiteddi e, nel perdurare di siffatta esperienza, sarai stato indotto a documentarti su due pittori impressionisti, Monet e Manet, simili e profondamente diversi tra loro,...

Quando dovessi vederlo immerso nel paesaggio ed elemento del paesaggio esso stesso, evita di cadere nel luogo comune, suggerito dalla sua umana, incoppolata, presenza, non scompagnata dall'equina dall’albo mantello e dalla soggiogante prossimità del Pizzo, di chiedergli, tu quoque, di che colore sia il cavallo bianco di Garibaldi, perché, seppur di indefinita scolarità, ha sufficienti cognizioni storiche e abitudine al giuoco di parole, per non cadere nel tranello...- Certi voti, quannu nni curcàvamu, nna ll'arii, dopu lu primu suonnu, nni struvigghiava lu sirenu di la notti e nun sapìamu s'eranu li tri o menzannotti, putìa esseri puru di prima sira... All'Alia nni regolàvamu cu lu roggiu o cu li campani di la Matrici... Si lu roggiu sunava, ancora, a lluongu. putìanu essiri li dudici e tri quarti, si sunava lu Patrinostru, eranu li quattro...Ma, in campagna, lu Triali era lu nostru roggiu, e s'ancora 'un si virìa, pigghiàvamu arrieri suonnu ...

Finalmente ancora un po' di lingua aliese, in un luogo in cui ancor l'alisi sona, davanti a la Matrici, cuore del paese, cosi come il sì suona là dove intendeva il citato, mai a sufficienza, gran poeta.



Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.2/07, pag.6


nr.2

Coi soli occhi


Già, ti prego di tenere presente — non l'avrai a male — che mi chiamo così: "padre Barcellona" e non "Rev.mo Monsignore ". (dal P.S. di una lettera a pag.169 dello "Epistolario"a cura di P. Paolo Iovino).

L'ultima volta che ti vidi avevi gli occhi chiusi, ma stringevi, ancora, il tuo Libro, con tale naturalezza che non sembrava, proprio, che te lo a­vesse accomodato, tra le mani, tene­ramente, un tuo familiare... Dormivi e non avevi più niente da dirmi... Finalmente, per una volta, ti avevo colto immerso nel sonno.

Le volte precedenti, ti avevo visto sempre sveglio, seppur con l'aria di un astronauta, reduce dallo spazio, e riprendevi, con i soli occhi, goliardi­camente complici, discorsi che du­ravano ormai da gran tempo, da quando svolgevi, nei miei confronti, la doppia funzione di padre spiritua­le e di padre, a tutti gli effetti, e nonostante la numerosa figliolanza, mi facevi sentire un pulcino privilegia­to... Senza questa sensazione, come avrei potuto nutrirmi in quel nido d'aquile cefaludense?!

Le altre volte, comunicavi con me, coi soli occhi, sostenuti da sequenze locutorie non ben definite, ma atte a sbrecciare il muro della memoria... Alludevi alla sequela di circostanze estive godute a Santa Lena, o seduti attorno a un odoroso e sostanzioso desco, in un interno rustico, o sotto gli alberi, nelle ore meridiane, a con­sumare vivande e a scambiarci alle­gri, salutari, prosit... .

Tu che, a coronamento dei tuoi studi alla Cattolica, avevi discettato su San Basilio, anzi, avevi dialogato con San Basilio, ci confessavi, nel corso di siffatti, gioiosi, convegni, che proprio a Santa Lena, più che nelle sedi accademiche, avevi avuto modo, eziandio, di approfondire la poesia di Teocrito, per la possibili­tà di sperimentare, colà, le intime correspondences tra il mondo a­greste e bucolico, cantato dal pre­sunto siracusano e quello di cui la campagna santalenese era parte.

"Ti ricordi?"- mi dicevano i tuoi occhi -, quando, nella sagrestia di San Giuseppe, dopo la messa e pri­ma della colazione, mi mettevi sot­to il naso un brano di greco, contro cui avevi battuto il capo? O quan­do mi venivi a trovare, a casa, per il Tedesco, perché tu potessi affrontare, serenamente, l'esigente Marmi, assistito dal tuo padre spi­rituale e, nel contempo, da chi, in quel di Monaco di Baviera, aveva respirato l'aria della terra dove era nato e già cresceva (/che lo raccol­se infante e lo nutriva/) il futuro papa Ratzinger ?...

"Ti ricordi?", mi dicevano i tuoi occhi buoni, la bocca abbozzando sequenze di parole tronche e sinco­pate, ”Per cinquant’anni e più il Cefalino, figlio segreto di Kefaloidion, ha portato acqua al Lavatoio Medievale, e, per altrettanto tempo, ha brontolato il mare, retrostante il Seminario, quando, riuniti in cap­pella, nelle varie ore del giorno, e prima di andare a dormire, cantava­te, in latino, i dolci inni, a Dio e a Maria, e qualche dissonanza, in un accento o in una desinenza, come padre spirituale, perdonavo, ma, co­me latinista, a corollario dei canti, stigmatizzavo.

"Ti ricordi, insomma, di quello che ti ho dato?!...", mi dicevano i tuoi occhi intelligenti. "Ti ho dato un amore, in esclusiva, per quanto condiviso, come padre e madre a numerosa prole, ti ho fatto crescere intellettualmente e spiritual­mente, ho sempre sostenuto la tua fede traballante, ora più che mai con la mia tacita e sofferta performance, e tu hai fede, perché io ho avuto fe­de... Poche volte mi meravigliai di questo mio figlio, e, per un momen­to, l'ho considerato perso: quando, incontrandolo alla Stazione (io ri­tornavo a Cefalù da Alia, lui, ad A­lia, da Palermo), ostentava un libro di uno scrittore anticlericale, troppo becero e prevenuto per vederlo nelle sue mani, o quando, al trattenimento delle nozze di mio figlioccio France­sco, mi chiese quale prevedevo fos­se il mio futuro, ed io, prontamente, -Come Dio vorrà! - gli risposi ... Peraltro, l'ho sempre riconosciuto come amato e atteso figlio, anche quando la malattia metteva a dura prova la mia memoria…”..


Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.2/06, pag.3


nr.3

Sogno di una notte di mezza estate


La vigilia o la sera del dì di festa, la gente, dopo la processione, da tutte le parti del paese, attraverso le bianche vele di la fera, mostranti ogni ben di Dio, alla luce delle lampare, affluiva in Piazza Santa Rosalia per il cinema all'aperto.

La ditta Florìa, che portava in giro i suoi impianti su una specie di camion, da dove faceva partire i suoi fasci di luce che si trasformavano in persone e oggetti su un lenzuolo da letto a due piazze, ben tirato ai quattro capi da altrettante funi, legate a due travi, piantate a terra per l'occorrenza, dopo avere, molto cavallerescamente, ringraziato il comitato dei festeggiamenti e le autorità cittadine, che ci tenevano, dava inizio alio proiezione.

Piazza Santa Rosalia veniva oscurata da un impiegato della luce, li firanti venivano invitati a spegnere la loro, e l'atteso sortilegio, finalmente, si compiva. Un mare di gente, seduta per aver portato le sedie da casa; in piedi, di quella che non badava a sacrifici per amore dello spettacolo, magari con un bimbo in grembo e l'altro in collo; accovacciati sui muri i più giovani e intraprendenti; su rialzi, intelligentemente rimediati, i più industriosi; ai balconi, padroni di casa, parenti e amici, oggetto d'invidia malcelata.

Si facevano le ore piccole, seguendo le vicende commoventi, inquietanti o truci, secondo il genere del film.
Ce n'erano di strappa lacrime e svenevoli, che trasformavano la piazza in luogo di sospiri e. pianti e, solo eccezionalmente, di svenimenti, ma più per la stanchezza dello stare in piedi o per lo stato interessante che per altro: «Mamma, mormora la bambina, tu compri solo profumi per te!...»

Ce n'erano con Giacomo Rondinella, protagonista-cantante, che induceva la gente ad esclamazioni corali di sorpresa o di rammarico. La si sentiva trattenere il respiro, deglutire l'acquolina, sussultare, sorridere, fremere, sempre all'unisono e secondo la circostanza.

Talora léggere, come in un coro di tragedia greca, una didascalia con la quale il cronista saldava un episodio all'altro molto distanti tra loro: «Venti anni dopo, quando tutto sembrava essere caduto nell'oblio, e qualcuno tra i più facinorosi aveva tirato le cuoia, un forestiero giunse nel paese, e nessuno sapeva donde venisse e che cosa fosse venuto a fare..., né osava di chiederglielo, a Livisillintocchi ... ».

Ricordo che, cugini e fratelli, ci portavamo sedie e coperte da casa, messi sull'avviso dalla nonna che, calando il sereno, avremmo sentito freddo, nella notte, specialmente dopo il primo sonno... E noi, seduti l'uno accanto all'altro sulle sedie allineate, con le nude gambe coperte dalle mante, cominciavamo a fare testamento già prima della fine del primo tempo e...: «Arrivederci, bella forestiera, rondinella venuta stasera...», finivamo l'uno sull'altro, sopraffatti dal sonno profondo degli innocenti, ed era come se si levitasse e si cominciasse a galleggiare su un mare di gente, immagini e suoni.

Ci svegliavamo quando si riaccendevano le luci della piazza e la gente cominciava a sgombrare, e ci coglieva di sorpresa e quasi ci dispiaceva il saluto compitato e altisonante dei cinemtografari vicaresi: ”La ditta Florìa ringrazia il Comitato, il Sindaco, l'Amministrazione, le Autorità civili e religiose e si augura di ritornare ad Alia presto. Arrivederci e Buona notte!”... Ma quale buona notte?!... se, dopo alquante sequenze, film interi e spezzoni di film, erano già le prime luci dell’alba successiva alla sera del dì di festa, che per essere non di molto posterire al solstizio d’estate, era ancora mattiniera, come, del resto, gli abitanti del paese.


Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr. nov-dic/94, pag.3


nr.4

”Molti erano i chiamati...”


Ricordo che eravamo cosi piccoli, nel nostro primo anno di Seminario, che si piangeva, ancora, a letto, se capitava di svegliarci, nel cuor della notte, sino a quando non ci fossimo imbattuti negli occhi miti e vigili di Domenico Savio, appena rischiarati da una luce, che, moderatamente, si diffondeva per la camerata.

Certo, ci mancavano papà e mamma, che erano, però gustosamente surrogati dai cari e dotti padri, sempre presenti con la loro rassicurante vistina sopra i pantaloni, ed evocanti le familiari immagini di papà, mamma, nonna, zia, messi assieme.
Ci mancava il paese, ma sino a un certo punto, perché eravamo scesi dagli avamposti delle Madonie verso la marina, odorosa di salsedine, in compagnia di altri compaesani, sul torpedone, guidato da lu zi' Totò anche lui col suo prezioso carico di figli e nipoti, destinati al Seminario, ed altre giovani esistenze avremmo trovato, provenienti similes cum similibus, dall'Acrocoro.

Alcuni, per partito preso, sono contro collegi, seminari e scuole gestite da religiosi, in genere, che divengono ingiustificato bersaglio del loro astio; io devo riconoscere di non aver ricevuto che bene dall'educazione dell'allora ancor tenera pianticella della mia vita, di cui, solo dopo, ho potuto ben valutare la portata.

Ma riprendiamo il nostro piacevole cammino, a ritroso nel tempo, per rimembrare qualche momento di quella bella, mistica e lunga vacanza, culminante nella Santa Pasqua e concomitante al risveglio della splendida primavera cefaludese.Nella Settimana di Passione si svolgevano gli esercizi spirituali che costituivano un importante happening religioso e culturale, in cui i nostri dotti padri o prelati di fama, nella più grande immedesimazione ed ascesi, ci sottoponevano, in cappella, all'ascolto di una serie di conferenze di contenuto teologico, mariano, sociologico, ecc..., in genere, accessibili a tutte le fasce di età, ma, qualche volta, al di sopra delle possibilità di ricezione, se non speciosa dei più piccoli, come nella circostanza in cui, mentre un gesuita, di gran grido. spaccava il capello in tre, discorrendo di libero e servo arbitrio, io andavo, col pensiero nostalgico, all'arbitrio di casa, che la nonna ci faceva girare... .

Intensa e partecipe, sino alla farneticazione e alla sete di martirio, fu l'attenzione agli esercizi di Padre Cavalli, missionario in Africa, grande affabulatore ed evocatore di immagini di negritudine, di cui, allora, ci nutrivamo, a sazietà, anche attraverso "Il piccolo missionario" e la "Crociata missionaria", ancor prima che col cinema e la televisione, da veri e propri cannibali dal viso pallido e imberbe...

Ricordo i sonni profondi, in cappella, dinanzi all'aureo Ostensorio, con l'intercalare dei clic e cedimenti delle articolazioni, "per quel nostro pregar sul pavimento", o nel corso delle lunghe, notturne performances, in Cattedrale, per le Sacra Tempora, in presenza di Mons. Cagnoni in persona, afflosciati come pretini di lattice, semisgonfi, sotto l'immenso sguardo, severo e benevolo, del Pantocratore.

Tutti i giorni si svolgeva il passeggio pomeridiano, in direzione del salso mare, o dell'amena campagna, o dell'ambito stadio cittadino, ma dopo gli odiosamati, ricorrenti, ritiri ed esercizi, si effettuavano i passeggi lunghi, che ci mandavano in visibilio.

Ne ricordo uno, particolarmente, a conclusione, forse, degli esercizi spirituali, inscritti nella Settimana di Passione, sicuramente nel corso di una profumata e inebriante primavera, per l'eccezionalità delle circostanze: la meta, Pizzo Sant'Angelo, mt. 1081, sovrastante Gibilmanna, da raggiungere, alla pedona, per erti e rocciosi sentieri; il ritorno, in Seminario, a tre quarti di giornata, con una fame da lupi gratificata dall'attesa, a refettorio, di un'intera batteria di galline, cucinate dalle suore cusmaniane, votate a rimpinzarci, provenienti dal pollaio contiguo al nostro studio, sulle quali gravava il sospetto di morìa....

Dolci, care e bianche suore, destinatarie di nostri concisi messaggi, scritti col lapis, "molle", "sodo", sui gusci delle uova, arrivate da casa, a sostegno della nostra alimentazione, che esse, puntigliosamente, ci restituivano, à la coque... .

Ricordate il canto, nella vostra festa, Tra le rose e le viole, qualche giglio ci sta bene ... ? O quando salivate sul terrazzo del Seminario, per prendere il sole, sicure di non arrossare, sotto l'ampia, bianca ed inamidata cortina del vostro velo?

I personaggi di questo incantato luogo della memoria tutti li ricordo, vivi, morti, preti e non più... con affetto struggente, e mi vedo, assieme a loro, come in una dantesca, mistica rosa, a cantare un canto, tante volte, colà, sentito, che mi è rimasto nel cuore, per la nostalgia che c'è dell'Aldilà:”Oltre il Cielo e oltre mare sta la Patria mia, beata...” .


Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr. 1/99, pag.3


nr.5

Et, inclinato capite, tradidit spiritum



Quando l'orologio della Matrice avrebbe suonato l'ora nona la nonna materna, armata di sarmento contro i miscredenti, fermava bruscamente i nostri giuochi, che si svolgevano, senza posa, nel cortile Genco, e, archiannu, come Cristo nel tempio: Cuomu, cu' lu Signiruzzu muortu, vuliti, ancora, jucari?... Da quell'ora sino alla Resurrezione le campane sarebbero state messe a tacere da lu zì Minicu, e si sarebbero sentiti, nell'aria, soltanto lo strepitare di li truòcculi e il battere, lento e sordo, sulla pelle d'asino del tamburo, coperto dal drappo nero di lutto. Il cielo, compreso del doloroso mistero e per l'imminenza del plenilunio, appariva turbato e segnato da nuvole, che, coprendo e scoprendo il sole, provocavano reiterati ed effimeri eclissi, simulanti, alla paesana, il grandioso eclissi totale, ab hora sexta ad nonam, del 33 d. C..

Fermavamo i giuochi, lasciando il campo ai coinquilini del cortile, reduci dalla campagna, dov'erano andati a dari arienzia a l'armali, in tiempu pi' la pricissioni; lu zì Tanu, di la Urfa, con la sua salmeria, la za Pitridda, di Tirdinari, assittata supra la scecca, cu'na manu a la vardedda e l'autra a la riètina, col suo fascio d'erba, da cui sfilavamo un filo d'avena o di sulla, che portavamo in bocca per sentirne il sapore dolciastro.

Le bestie non digiunavano e anche noi, più volte, spezzavamo il digiuno, con un'anga di pane di Cena, dalla bianca marmorata, o con un consistente frammento di piecuru di zuccaru, misteriosamente incrinatosi, prima della Pasqua, o cu' un piezzu di pupu cu' l'uovu, rifilati dal vicino, nisciutu apuostulu, e, il dì prima, seduto sul banco per la Lavanda dei piedi.

In prossimità della Pasqua, Piero, Eugenio e Didaco, dopo aver fatto, qua e là, incetta di zucchero, si recavano dalla Cubaitara, che avèa casa e laboratorio vicino alla Matrice, perché convertisse la partita di dolci grani di cristallo in una strippata di picurieddi, che, poi, ci apparivano troppo pochi e minuti, alla consegna... C'è sfidu! si scusava la buona donna. La cara zia Mannina, poi, era, anche, brava a fare li picurieddi di pasta di mandorle, la cui preparazione durava più giorni, come la Creazione: schiacciava, sbollentava, mondava, macinava, impastava e, infine, plasmava, col bianco stampo di gesso.

Interrotti i giuochi e spezzato il digiuno, visitavamo il Santo Sepolcro, cunsatu nella cappella di lu Sagramientu, dall'aria grave e raccolta, discretamente illeggiadrita dalla messe di laurieddu, tenero e biondo, per carenza di fotosintesi clorofilliana, ma così ricco di significati.

Nel tardo pomeriggio, sfilava il corteo col Nazareno, supino, nell'urna di l'angiuliddi, portato a spalla, sulla vara, lungo la strada di la pricissioni, fina lu Cravaniu, presidiato da la za Billonia. Sul sagrato della chiesa di S. Giuseppe, attende, affranta, la Madre Addolorata, che a Lui si unisce. Precedono, confrati, con scapolare e torcia, chierichetti e prelati, cu' sulu rubbuni; seguono, musicanti, autorità e il gran popolo.

Il panegirista è già sul terrazzo, "come torre che non crolla per soffiar di venti", in quel crocevia di correnti d'aria ca è lu cravaniu, tantu ca l'antichi ci facìanu l'arii, appunto... Sotto la folla fa testuggine contro la Cifalutana. Lontano, l'ampio arco occidentale dell'orizzonte, che ha in Busambra il suo referente, dove la luce del giorno tarda a morire. Il dotto reverendo dà buona prova di commovente oratoria su tema obbligato, e di resistenza al freddo...Mancu chissu pì lu Signiruzzu?...


Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr. 1/97, pag.5




nr.6

Profumo di "urciddata" per le strade locali


Gli ingredienti per un chilogrammo di farina erano e continuano ad essere: 300 grammi di saimi (strutto), 350 grammi di zucchero, latte quanto basta, un pizzico di cannella macinata, 10 grammi di ammoniaca e tre uova, ma... esistono altri segreti che solo le nostre massaie conoscono e sanno mettere in pratica.


Cari lettori, il Natale è ormai alle porte e un'aria di festa, che porta con sè armonia e serenità, si respira per le vie del paese. È proprio nelle feste, e soprattutto in quelle religiose che ogni popolo manifesta la sua storia plurisecolare, il suo spontaneo modo di essere e di fare che si evidenzia anche a tavola. Quelle lunghe “tavolate" di cui oggi resta spesso solo il ricordo nei più anziani, erano una sinfonia di colori e di sapori in una intimità calda e riposante. E anche se su quelle tavole imbandite mancavano cibi prelibati e pietanze raffinate, non mancava l' affetto familiare che vedeva riuniti grandi e bambini in un'atmosfera serena e festosa. La gastronomia natalizia è molto ricca di piatti saporiti, ma dove veramente la cucina raggiunge il suo apice è nel campo dei dolci, là dove crea degli autentici capolavori di arte culinaria.

Se di dolci si parla, non posso non farvi “gustare" il dolce natalizio per eccellenza “lu urciddatu". La preparazione di “li urciddata" vedeva riunite tutte le donne di casa, ed era lunga, laboriosa e faticosa. La tradizione di “li urciddata" fatti in casa per fortuna non è andata completamente perduta e la maggior parte delle famiglie aliesi suole prepararli ancora in casa.”Li urciddata" venivano prima fatti solo di fico, soltanto in tempi relativamente recenti anche di “chinu" ovvero di mandorle.

La preparazione si svolgeva in due momenti diversi: il ripieno, infatti, doveva essere già pronto da qualche giorno quando veniva preparato l'impasto. Con le dovute varianti, di famiglia in famiglia.

Gli ingredienti usati per un chilogrammo di farina erano e continuano ad essere: 300 grammi di “saimi" - strutto - , 350 grammi di zucchero, latte quanto basta, un pizzico di cannella macinata, 10 grammi di ammonìaca e tre uova. “Na la maidda" si mettevano zucchero, farina ed ammoniaca, si aggiungeva la “saimi" e si “sfriculiava" per amalgamare bene la “saimi" con gli altri ingredienti.

Aggiungendo le uova si continuava a lavorare il composto versandovi il latte fino a rendere l'impasto così morbido da poterlo stendere “cu lu sagnatùri " - matterello - “ncapu lu scanaturi" - ripiano in legno - in modo tale che lo spessore della pasta risultasse inferiore ad un dito. Sulla pasta così stesa si metteva a mucchietti “lu chinu o li ficu" preparati già prima. Il ripieno veniva ricoperto da altro impasto e con delle forme adatte o con le mani si faceva in modo di far “attaccare" le due superfici per non far uscire “lu chinu".

Appena pronti, i buccellati si infornavano nel forno a legna già caldo e vi si lasciavano fino alla loro doratura. Dopo averli sfornati si spalmava sopra “la marmurata o allustrata" oppure, dopo fatti raffreddare, si spolverizzavano con lo zucchero a velo.

Per la preparazione della “marmurata" occorreva albume, zucchero a velo e qualche goccia di limone. Si sbatteva l'albume fino a montarlo a neve e quindi, continuando a sbattere, si aggiungeva a poco a poco lo zucchero fino ad ottenere un composto bianchissimo e non troppo denso. Per cuocere la “marmurata" occorreva, infine, un’altra passata al forno, a temperatura moderata.

La preparazione di “lu chinu" , come abbiamo detto, iniziava qualche giorno prima. Dopo aver schiacciato e “annittatu" le mandorle, si sbollentavano per togliere la sottile buccia scura e si macinavano con la “machina pi macinari li miennuli", si mettevano in un tegame insieme all'acqua e allo zucchero - un chilogrammo di mandorle, un litro di acqua e un chilo di zucchero - e si faceva cuocere per almeno tre quarti d'ora. “A lu chinu" si aggiungeva, prima di metterlo sulla pasta, “cucuzzata" - zuccata candita - a pezzi, cannella, buccia di limone grattugiato e in tempi più recenti pezzi di cioccolato.

Il ripieno dei buccellati veniva però preparato principalmente “cu li ficu asciutti" che ognuno asciugava al sole nel periodo “di ficu" che conservava o "'nchiappati e 'ntrizzati" o a “passuluna". “Li ficu" venivano macinati e fatti cuocere con un po' d'acqua, zucchero e pezzi di buccia di arancia.

Anche a questo composto poteva essere aggiunto a piacere zuccata, cioccolata e cannella. In tempi meno prosperi quando l' economia non era molto florida e nelle famiglie scarseggiavano anche i beni di prima necessità, non volendo rinunciare al piacere del tipico dolce natalizio, “li urciddata" venivano “cunsati cchiù scarsi" e con qualche variante: un po' d'olio al posto della “saimi", acqua al posto del latte, meno zucchero, senza zuccata ma soltanto buccia di limone grattugiato e un po' di cannella “pistata na lu murtali di ramu".


Daniela Gucciardino
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr. 3/02, pag.12



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Edizione RodAlia - 27/11/2010
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