Logo
.
...Data martedì 23 aprile 2024
...Visite ad oggi 938743  Visitatori
Logo
 

Ambito di Ricerca:Aspetti sociali
   
IDENTITA' PERDUTE E FRANTUMATE
---- studio su giovani immigrati
di 3^ generazione ----
 

 

Giovani immigrati di terza generazione in Belgio.
Identità perdute e frantumate:
studio del caso del quartiere “Borgerhout” ad Anversa.

 

di Mohamed Saadi



immagine allegata

 

traduzione di Nassih Redouan e Zineb Saaid; revisione di Patrizia Perocco.




Prefazione


I giovani di origine marocchina residenti in Belgio, sono di fronte ad una nuova svolta dopo i pericolosi attacchi terroristici che hanno colpito recentemente Parigi e Bruxelles. Il fatto di mettere sotto i riflettori le periferie e i ghetti in cui vivono ha sollevato di nuovo la questione dell’integrazione “abortita” nella società belga.

Gli immigrati di terza generazione soffrono di problemi seri, che influenzano il loro presente e il futuro che vogliono per sé stessi e per il loro ambiente familiare e sociale. Si tratta di problemi che riguardano la stigmatizzazione sociale, l’esclusione sociale, l’estremismo religioso, la rottura identitaria, il fallimento scolastico…; è una categoria di giovani che vive nelle periferie delle città belghe, è nata e/o cresciuta e ha studiato in Belgio; la maggior parte di loro non è riuscita a condurre a buon fine il proprio percorso scolastico – sono giovani disoccupati ed insicuri. In assenza di coerenza identitaria, i membri di questa categoria vivono in gruppi disgregati ed isolati culturalmente sia dalla società che dalla cultura dei loro genitori. Spesso vengono visti come un “problema”; e se aggiungiamo alla loro forte sofferenza, causata dalla stigmatizzazione e dalla discriminazione, la frustrazione e la contraddizione del loro vissuto, si comprende come il loro habitat quotidiano si possa trasformare facilmente in un ambiente in cui vengono covati l’estremismo religioso, la criminalità, i sentimenti di rancore, di ira e d’insicurezza. Non è casuale che quartieri come Molenbeek, Schaerbeek a Bruxelles e Borgerhout nella città di Anversa abbiano esportato un considerevole numero di combattenti nelle fila del cosiddetto stato islamico, Isis in Iraq e in Siria, come non è una coincidenza che la maggior parte di quelli che hanno partecipato o contribuito agli attacchi terroristici di Parigi e di Bruxelles appartengano a questi quartieri.



L’ipotesi da cui partiamo è che i fenomeni di povertà e di marginalizzazione, frutto delle politiche di esclusione e di discriminazione, e persino alcuni aspetti della cultura religiosa islamica che induce questi giovani verso l’estremismo e il rifiuto dell’altro, non bastino a spiegare la tendenza alla ribellione dei giovani oggetto di studio e la loro mancata integrazione sociale. Per comprendere come questi giovani diventino facile preda dell’estremismo religioso è necessario, invece, orientarsi verso lo studio della violenta rottura identitaria che si trovano a vivere, della loro ricerca di un senso identitario ed una sicurezza legata ad esso, del loro bisogno di crearsi delle appartenenze identitarie e collettive, che però in realtà sono fragili, non in grado di appagare i sentimenti di insicurezza e insoddisfazione. Inoltre, in questo studio, spiegheremo che a ogni accentuazione del sentimento di confusione identitaria, a causa dell’autoisolamento o dell’esclusione sociale, corrisponde il crollo dei valori del pluralismo, della convivenza sociale e dell’integrazione di questi giovani nella società belga.



Il progetto dello studio si inserisce nell’ambito delle ricerche sociali applicate, basandosi sullo studio sul campo e l’analisi dei giovani di origine marocchina che vivono nel quartiere Borgerhout. Tale studio ha come obiettivo l’esaminazione delle condizioni dei giovani marocchini, delle loro origini sociali ed inerenti problemi e delle loro concezione di identità e dell’”altro”, del diverso per religione e cultura (l’occidente, la società belga, ecc.). Per quanto riguarda la metodologia di ricerca, abbiamo adottato un piano generale suddiviso in varie fasi, fra cui le più importanti sono:


 

    La fase di osservazione e la visita al quartiere Borgerhout



    La fase di compilazione di formulari sulla base di interviste individuali con un campione di immigrati della prima generazione ancora viventi, e con un altro campione di immigrati di seconda e terza generazione.



    La fase dell’elaborazione bibliografica e raccolta di tutto il materiale, scritto e non, sul tema, consultando i documenti e i reportage sull’argomento dei mass media audiovisivi e della stampa.



    La fase dell’analisi dei grafici e dei dati per trarre alcune conclusioni dai risultati.



    Abbiamo adottato in questa ricerca l’approccio descrittivo che si basa sulla raccolta dei dati sociali, attraverso strumenti di ricerca quali formulari e interviste, al fine di ottenere dati e informazioni da un gran numero di attori delle diverse categorie oggetto della ricerca. Inoltre, ci siamo basati sul metodo del caso di studio adottato nelle scienze sociali, il cui obiettivo è di realizzare un’indagine dettagliata e monografica di un’unità sociale precisa, al fine di chiarire i suoi vari aspetti e stabilirne le dimensioni per arrivare a conclusioni e generalità che abbiano dei significati inerenti alla categoria studiata in rapporto alla società e alle sue strutture sociali, economiche, culturali e politiche.



    Dal momento che la cultura e la lingua prevalenti in questo quartiere sono la cultura e la lingua berbera del Rif (relativa alla zona montana che si trova nel nord del Marocco), abbiamo effettuato le interviste in lingua berbera sia nel quartiere Borgerhout che nelle città di El Hossima e Nador in Marocco, città nelle quali un numero importante di abitanti del quartiere Borgerhout torna durante il periodo estivo per passare le vacanze. La ricerca mira a dare un’immagine, il più possibile aderente alla realtà, alle concezioni e percezioni dei giovani emarginati di terza generazione: la loro realtà socio-ambientale, la loro visione dell’Islam e dell’estremismo religioso, la loro convivenza con “l’altro, il diverso”. Lo scopo ultimo è di comprendere le istanze di questi giovani individui che preferiscono l’esclusione o la risposta violenta a una società in cui non hanno trovato sé stessi o da cui si sentono rifiutati, spesso attraverso l’illusione di appartenere ad un islam ortodosso, utopico e transfrontaliero, la cui massima manifestazione è il cosiddetto Stato Islamico: “Isis”.

    Pertanto ho scelto un campione suddiviso in tre categorie per la realizzazione di interviste con questi giovani e la successiva compilazione di formulari:



    Prima Categoria: costituita da 50 giovani belgi di origine marocchina che risiedono nel quartiere Borgerhout nella città di Anversa, la loro età varia fra i 17-30 anni. A questa categoria, secondo gli studi accademici sull’immigrazione, appartiene la terza generazione di immigrati, nella maggior parte nati in Belgio da genitori marocchini, provenienti dalla regione del Rif nel nord del Marocco, che godono della cittadinanza belga (alcuni di loro sono cresciuti in Marocco e hanno raggiunto i loro genitori in età molto giovane). Il campione scelto rappresenta una categoria di giovani che vive in condizioni di disoccupazione, fallimento scolastico e mancanza di prospettive, circostanze che rendono alcuni di loro facile preda della delinquenza, della criminalità, del traffico di droga, della tossicodipendenza e persino dell’estremismo religioso. Il fatto che ci siamo focalizzati su questo campione, non significa che tutti questi figli di immigrati non abbiano avuto successo in vari settori. Molti di loro, specie le ragazze, si sono realizzati nella società belga in modo eccelso e sono riusciti a conquistarsi uno spazio pubblico, sia nel campo dell’insegnamento, sia nella politica che nella cultura o nello sport.



    Seconda categoria: composta da 50 immigrati di origine marocchina con un’età che oscilla tra i 30 e 45 anni, figli della prima generazione di immigrati marocchini, nati in Marocco, che hanno raggiunto i loro genitori negli anni ottanta quando avevano tra i 6 e i 18 anni; oppure studenti istruiti, in possesso di diplomi di alto livello, conseguiti in Marocco, spinti dalla disoccupazione a immigrare in Belgio negli anni novanta del secolo scorso, o sposati a donne belghe di origine marocchina, o ancora studenti venuti all’epoca per proseguire i loro studi nelle università belghe. Questa categoria rappresenta la generazione intermedia tra la prima e la terza. Tanti di loro sono riusciti ad integrarsi con successo nel mercato del lavoro, inserendosi persino nel settore pubblico, nell’attività politica e nella società civile; tuttavia alcuni di loro soffrono il precariato e si trovano ad affrontare urgenti problemi sociali e familiari.



    Terza categoria: composta da 50 persone, la maggior parte delle quali ha superato i 60 anni e costituisce la prima generazione della migrazione. In grande maggioranza pensionati, hanno lasciato i villaggi del Rif alla fine degli anni sessanta individualmente, prima di fare il ricongiungimento con le loro famiglie a partire dalla metà degli anni ottanta. Molte di queste persone hanno contribuito a formare una classe media nel quartiere Borgerhout, possiedono una casa di loro proprietà e investono in attività commerciali e di servizi; mentre alcuni di loro sono rimpatriati in Marocco, tanti altri si sono stabiliti in Belgio, pur continuando ad avere stretti legami con il Marocco.




    Bisogna precisare che vi è un dibattito sul piano della metodologia in ambito accademico riguardo alla questione della classificazione degli immigrati secondo la periodizzazione generazionale: non c’è accordo tra gli studiosi nel campo della migrazione su questo argomento ma c’è invece l’orientamento a distinguere tra la prima, la seconda e la terza generazione di immigrati per il fatto che la prima generazione è nata nel paese di origine, mentre la seconda e la terza generazione sono nate nel paese di accoglienza, oppure vi sono arrivate in giovane età. Riteniamo, tuttavia, che questa classificazione risulti alquanto riduzionista, perché non prende molto in considerazione le caratteristiche legate alle dinamiche migratorie specifiche.



    Abbiamo cercato, per quanto possibile, di osservare, nelle varie fasi, i criteri deontologici della ricerca scientifica, attraverso il rispetto della dignità degli intervistati: di far loro comprendere il tema, di informarli sulla predetta ricerca, di proteggerne la vita privata e l’identità personale, di non diffonderne le foto, nel rispetto della loro volontà, e di non rivelare i loro veri nomi durante la narrazione delle loro testimonianze.

     

    È da notare che c’è una scarsità di ricerche in lingua araba inerenti al tema dei giovani immigrati in relazione alla questione dell’integrazione, della discriminazione, dell’estremismo e della rottura identitaria. Inoltre, l’argomento impone una serie di domande scomode e per certi aspetti struggenti a cui è difficile trovare delle risposte soddisfacenti, in particolare per quel che riguarda i motivi scatenanti l’estremismo violento e immediato di alcuni giovani di questa categoria, e la rabbia verso il proprio ambiente sociale e religioso. Da qui scaturisce l’interesse di questo studio, che aspira a dare delle risposte e a delineare i contorni dei mondi in cui vivono i membri di questa categoria di giovani, attraverso il tentativo di capire i vari contesti su cui si innestano le loro situazioni sociali, nonché le dinamiche di interazione per cercare l’autostima e il riconoscimento della società, e infine l’analisi delle pressioni che i vincoli sociali, culturali e psicologici esercitano nella realtà della loro vita quotidiana.



    Crediamo che trattare un tale fenomeno, dal punto di vista delle scienze sociali, dovrebbe portare a superare le interpretazioni riduttive, le letture semplicistiche, ampiamente diffuse oggi, che rendono la questione unidimensionale, per esempio prendendo in considerazione solo la dimensione sociale (l’emarginazione e l’esclusione sociale) o la dimensione religiosa o culturale (l’estremismo religioso) o demografica, ecc.; infatti questo crea solo nuovi equivoci e solleva più domande e punti interrogativi. Sentiamo perciò un grande bisogno di paradigmi esplicativi che evidenzino la pluralità di fattori e di aspetti, nel quadro di un approccio transdisciplinare, che ci aiuti a interpretare alcuni aspetti del fenomeno della violenta rottura identitaria dei membri di questa categoria di giovani e che ci dia infine la possibilità di capirlo e di comprenderlo fino in fondo.



    Il contesto generale.



    L’islam è considerato la seconda religione in Belgio dopo il cristianesimo e la maggior parte dei musulmani sono immigrati o figli di immigrati o loro nipoti. La considerevole presenza dei musulmani in Belgio è dovuta alle due convenzioni che il Belgio ha firmato con il Marocco e la Turchia nel 1964 per l’importazione della mano d’opera di cui necessitava. Infatti il Belgio ha riconosciuto ufficialmente la religione musulmana nel 1974. E nel gennaio 2015 il numero dei musulmani presenti in Belgio ha raggiunto quota 781.887 persone, cioè il 7 per cento della popolazione belga. Si registra inoltre un aumento crescente del loro numero: costituivano nel 2011 il 6,3 per cento della popolazione Belga e il 6 per cento nel 2008. Il loro numero potrebbe raggiungere il 10,2 per cento nel 2030 secondo le previsioni del centro specializzato di ricerca PEW che si occupa della crescita delle religioni nel mondo. La grande maggioranza dei musulmani in Belgio è di origine marocchina e turca. I marocchini costituiscono il 46 per cento della popolazione musulmana, e i turchi, invece, il 26 per cento. Il 90 per cento di queste due categorie (marocchini e turchi) ha ottenuto la cittadinanza belga oppure sono in possesso di doppia cittadinanza.

     

    L’emigrazione regolare dal Marocco verso il Belgio è cominciata e proseguita fino a metà degli anni sessanta. Il numero degli immigrati marocchini ha conosciuto una crescita molto elevata in un periodo di soli vent’anni: cioè dal 1992 fino all’inizio del 2012 è più che raddoppiato raggiungendo una quota pari a 429.580 persone, vale a dire il 3.9 per cento della popolazione belga.

    La maggior parte si trova a Bruxelles e nella regione fiamminga, soprattutto nella città di Anversa, oggetto del nostro studio, città che ha conosciuto negli ultimi anni la più grande crescita demografica di immigrati di origine marocchina e dove risiede una delle più grandi comunità musulmane in Belgio.

    Questa forte vitalità demografica è dovuta ai movimenti continui e regolari dal Marocco verso il Belgio, e all’elevata fertilità degli immigrati marocchini ivi residenti. Gli immigrati di origine marocchina sono considerati tra le popolazioni immigrate che hanno beneficiato maggiormente della cittadinanza belga dopo l’emendamento delle leggi belghe sulla cittadinanza nella metà degli anni Ottanta. Essi sono al primo posto fra i detentori della cittadinanza belga. Perciò, i cittadini belgi di origine marocchina costituiscono la quarta più grande comunità di immigrati dopo quella di origine italiana, francese, e olandese.



    Malgrado il peso demografico, gli immigrati di origine marocchina, soprattutto i giovani che sono nati e cresciuti in Belgio, rimangono tra quelli maggiormente affetti da disoccupazione e discriminazione in svariati settori, soprattutto nei campi del lavoro e dello studio. Si registra tra di loro il numero più elevato di criminalità, il livello di istruzione più basso, con una presenza molto forte in tutte le diverse forme di esclusione sociale. Il Belgio viene considerato, a livello di integrazione professionale degli stranieri non europei residenti in Belgio, il peggiore modello tra i paesi dell’unione europea.

    Secondo i dati dell’ufficio statistico europeo, nel 2014, il 36.2 per cento di questi stranieri, nella loro maggioranza di origine marocchina, con età che oscilla tra i 15 e i 64 anni, non aveva un lavoro. Il tasso di disoccupazione tra gli stranieri non europei in Belgio ha raggiunto il 30.7 per cento rispetto al 21.3 per cento della media europea, e persistono a tutt’oggi grandi difficoltà e molti ostacoli nel trovare un’opportunità di lavoro, a causa soprattutto della presenza di diverse forme di discriminazione nei confronti dei cittadini di origine straniera.



    Questa situazione ha prodotto, e sta ancora producendo, una sorta di rabbia e di malcontento, persino una sorta di “rancore” in questa categoria di giovani di origine marocchina verso l’ambiente circostante e verso l’intera società belga. Questo può spiegare in parte la tendenza o la conversione rapida e improvvisa di alcuni di loro all’estremismo religioso, nonché il facile proselitismo da parte delle organizzazioni Jihadiste, soprattutto dell’organizzazione cosiddetta dell’ “Isis”. Gli ultimi attacchi terroristici di Parigi e di Bruxelles hanno sollevato tante domande scomode riguardo ai motivi che hanno spinto giovani, che conducevano fino a poco prima una vita tranquilla, a commettere attentati suicidi che hanno terrorizzato l’Europa.



    E hanno riportato con forza al centro del dibattito intellettuale la questione dell’immigrazione in relazione alla problematica dell’integrazione e dell’identità dell’estremismo religioso fra i giovani. Di conseguenza, sono tornati alla ribalta i quartieri residenziali “nei quali ci sono grandi problemi”, dove risiede un’alta percentuale di immigrati, concentrata principalmente nelle zone di Bruxelles, Hasselt, Genk, Anversa, Verviers e Charleroi. Una sorta di “chiusura culturale” caratterizza infatti alcuni quartieri di queste città nei quali i diversi gruppi etnici vivono isolati gli uni dagli altri, e dove persistono problemi sociali e di sicurezza, con un alto tasso di fragilità sociale, di fallimento scolastico e di mancata integrazione professionale e sociale. Questi quartieri sono stati incubatori per la generazione dell’estremismo religioso e di molti “jihadisti” che hanno preso parte agli attacchi terroristici di Parigi e Bruxelles, o di quelli che si sono diretti verso la Siria e l’Iraq per combattere con l’”Isis” o il Fronte di Al- Nusra.



    Il Belgio, nel 2012, è stato tra i primi paesi europei ad assistere al fenomeno della partenza di giovani per la Siria e l’Iraq e, a livello europeo, è il più grande esportatore di jihadisti verso quei paesi rispetto al numero dei suoi abitanti. Secondo alcune statistiche, fino al 2015, 400 cittadini belgi hanno lasciato il paese per combattere in Siria e in Iraq, la maggior parte di loro di origine marocchina: più di 50, sono stati uccisi in battaglia, dei quali molti giovani che non superano i 23 anni di età; tra di loro c’è anche una notevole presenza di donne. Di questi, 150 sono potuti ritornare in Belgio e altri 61 sono stati imprigionati. Le principali città dalle quali è partito il più grande numero di Jihadisti sono: Anversa, Felfourd, Malines, Bruxelles….



    È da notare la giovane età di costoro: l’età media oscilla tra i 18 e i 22 anni. Inoltre, suscita preoccupazione la percentuale dei minori che hanno raggiunto la Siria o sono procinto a raggiungerla. Per di più, è andato affermandosi il fenomeno di giovani ragazze e di intere famiglie o di fratelli che partono per combattere in Siria. Malgrado la difficoltà a trovare un denominatore comune fra di loro, il punto interrogativo rimane l’estrema velocità con la quale i giovani di questa categoria abbracciano il pensiero estremista, e la rapidità con cui si passa dall’operazione di proselitismo al raggiungimento dei campi, il tutto in pochi giorni. Questo processo viene definito da alcuni studiosi e politici con l’espressione “la radicalizzazione violenta”, che è diventata oggetto di molti studi e analisi.



    La città di Anversa: una sfida di convivenza tra identità molteplici e diverse.



    La città di Anversa (Antwerpen in lingua fiamminga, Antwerp in lingua inglese) rappresenta la sfida per eccellenza per quel che riguarda gli esiti delle interazioni di una serie di questioni legate all’immigrazione in Belgio, tra le quali la situazione dei giovani immigrati, la convivenza interreligiosa, inter-identitaria, ed interculturale, l’immigrazione e il senso di appartenenza alla patria, l’estremismo religioso, il razzismo, l’integrazione sociale e i valori del vivere comune… ecc. Gli sguardi delle autorità belghe sono tutti puntati su questa città, descritta dalla stampa belga come una bomba ad orologeria che nessuno sa quando “scoppierà” e quali conseguenze comporterà sul piano delle interazioni migratorie nella regione.



    Anversa è fra le città più grandi del Belgio per superficie e, nel gennaio 2015, è diventata la città più densamente popolata dello Stato, raggiungendo una popolazione totale pari a 601.257 abitanti. Vanta il secondo porto più grande d’Europa e il quarto porto più grande del mondo. È considerata la capitale della regione fiamminga e il suo principale centro economico, oltre ad essere vicina alle frontiere olandesi. La città è anche reputata la capitale mondiale dell’industria e del commercio dei diamanti. Inoltre, è rinomata per essere una città cosmopolita che incarna, in parte, i valori della convivenza e dell’interazione tra diverse culture. Infatti, grazie al susseguirsi delle varie ondate migratorie che ha conosciuto nei decenni, è diventata luogo di residenza di svariate comunità etniche: olandese, marocchina, turca, ebrea, africana, asiatica, indiana, pakistana, cinese…). La città, quindi, dove convivono più di 150 nazionalità diverse, si fa vanto dello slogan “la città è per tutto il mondo” (T stad is van iedereen!).



    Non è strano, infatti, trovare nei suoi quartieri negozi fiamminghi accanto a quelli marocchini, turchi, pakistani e cinesi, oltre a negozi ebrei (panifici, pasticcerie e negozi per la lavorazione dei diamanti) e indiani (diamanti)…, o sentire contemporaneamente per le strade conversazioni in lingua fiamminga, inglese, francese, araba, e berbera del Rif, turca, e yiddish (la lingua degli ebrei ashkenaziti). Come è anche possibile passare da un tipo di cucina all’altra nella moltitudine di ristoranti diversi che offrono i piatti più disparati: dal cibo e dolci fiamminghi al kosher ebraico, dal Kebab turco alle pietanze cinesi, dal pesce cucinato alla mediterranea nei ristoranti marocchini al cibo vegetariano indiano.

    Oltre a tutto ciò, la città è considerata, per eccellenza, una zona di convergenza fra varie e diverse religioni e culture: qui troviamo musulmani, cristiani, ebrei orientali e giainisti (seguaci della religione indiana giainismo) e buddisti. Anversa conta anche un notevole numero di chiese, moschee e sinagoghe, ed ospita il più grande tempio della religione di Jana, fuori dall’India, nel quartiere fiammingo di Wilrijk.



    A partire dalla fine del diciannovesimo secolo, la città ha conosciuto per decenni grandi ondate migratorie, provenienti dall’Europa dell’Est, e ha vissuto, negli anni sessanta del secolo scorso, l’immigrazione proveniente dalla Turchia e dal Marocco. Ciò ha reso Anversa un’entità particolare con un’identità culturale e religiosa alimentata da una compagine etnica variegata; nella città, si trova anche un quartiere ebraico con sinagoghe e scuole ebraiche, dove sono messe in atto ingenti di misure di sicurezza (ci sono circa 30 mila ebrei che abitano ad Anversa). E nelle vicinanze si trova il quartiere Bourgraut, in cui c’è una grande presenza di musulmani marocchini. La città ha conosciuto, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, una significativa diffusione dello sciismo, corrente minoritaria dell’Islam a cui tanti marocchini si sono convertiti j, mentre le chiese cattolica, ortodossa orientale e protestante convivono tra di loro.



    Si registra un aumento considerevole del numero di musulmani ad Anversa e la maggior parte dei bambini che frequenta la scuola primaria è musulmana: la loro percentuale raggiunge il 52,4%, seguita da protestanti (26,4%) e poi cattolici (18,7%). Il numero totale degli scolari per l’anno scolastico 2015-2016, raggiuge quota 12.300 nelle scuole primarie; di questi 6.451 sono musulmani. E nel comune Borgerhout, il 63% degli alunni della scuola primaria sono di origine musulmana[16], il che significa che la maggior parte della popolazione di Anversa fra 10 anni diventerà musulmana. È da segnalare che dal mese di settembre 2009, alle musulmane è vietato portare il velo nelle scuole pubbliche laiche di Anversa, motivo per cui sono costrette a toglierlo all’entrata di scuola e indossarlo nuovamente all’uscita.



    Anversa è inoltre diventata, dagli anni Ottanta del secolo scorso, una città che attrae molti omosessuali, soprattutto i turisti fra loro, in quanto vi sono numerosi locali gay nel centro della città (ristoranti, caffè, bar, discoteche…), concentrati principalmente nei quartieri universitari di Anversa, dove si organizza annualmente, in agosto, una parata lungo la strada principale della città (Antwerpen Gay Parade). Il Vescovo di Anversa (Johan Bonny) richiede dal 2014 alla chiesa cattolica di riconoscere gli omosessuali e benedire il loro matrimonio. È da segnalare, anche, che il Belgio è il secondo paese, dopo l’Olanda, ad aver riconosciuto dal 2003 il matrimonio gay.

     

    La città di Anversa è anche la capitale dei fiamminghi. Esiste da sempre un forte conflitto tra i fiamminghi e i valloni, portatori quest’ultimi di cultura francofona; e la tendenza da parte dei fiamminghi verso l’indipendenza e la separazione dal Belgio, soprattutto in seguito alla notevole crescita economica, ha causato tensioni e gravi crisi politiche. La cultura dominante nella zona di Bruxelles e Vallonea, caratterizzata dall’apertura e assimilazione della diversità e della differenza contrasta con quella di chiusura identitaria di Anversa, poiché le tendenze nazionaliste fiamminghe sono aumentate fortemente nella città e in tutta la regione fiamminga. Il che ha portato ad una sorta di circospetta e diffidente convivenza tra Valloni e Fiamminghi da una parte e immigrati di origine marocchina dall’altra. La regione di Anversa ha conosciuto recentemente una forte ascesa delle correnti dell’estrema destra nazionalista xenofoba e soprattutto antimusulmana, come il partito di Vlaams Belang; c’è anche una sede fiamminga del movimento razzista Pegida ad Anversa, i cui seguaci nel 2016 hanno organizzato incontri e manifestazioni di piazza gridando slogan antimusulmani e antiimmigrati del tipo “Mohamed non è il benvenuto qui”.



    Le ondate di islamofobia e di razzismo contro gli stranieri e, soprattutto, contro gli immigrati di origine marocchina, sono aumentate in modo notevole nella regione di Anversa. È successo anche al sindaco di Anversa, Bart De Wever, leader del partito Nieuw-Vlaamse Alliantie, di suscitare un grande scalpore, con la sua dichiarazione in un incontro mediatico: “La comunità marocchina del Rif ad Anversa è molto chiusa su sé stessa, e ha un profondo sentimento di diffidenza verso le autorità; l’islam al suo interno non è omogeneo e c’è una forte predisposizione per il salafismo e per l’estremismo. Non ho mai visto un immigrato di origine asiatica lamentarsi della discriminazione sul lavoro, e non sono neanche molto presenti nelle statistiche della criminalità. Al contrario, incontriamo molti problemi per quel che riguarda la mobilità sociale della comunità berbera di Anversa, che costituisce l’80 per cento della comunità marocchina nella città”. Nello stesso contesto, il sindaco della città ha descritto le donne velate come “indossatrici di tende” tende che camminano, e la figlia di uno dei leader del partito Vlaams Belang, Philip Dillitter, noto per le sue posizioni di estrema destra, è apparsa in un manifesto elettorale, indossando contemporaneamente bikini e burqa, con la scritta provocatoria: “La libertà o l’islam: dovete avere il coraggio di scegliere”.

     

    Uno studio su grande scala sugli adolescenti fiamminghi di Anversa e Gant, le due più grandi città fiamminghe, ha evidenziato che, un giovane fiammingo su tre ha una visione negativa dei musulmani, uno su cinque è convinto che molti musulmani siano dei criminali e contrari al matrimonio gay. Nonché uno su quattro pensa che l’uso della violenza contro i musulmani sia legittimo e giustificato, e che la metà dei musulmani condivida l’assunto che “gli ebrei dominano su tutto”, e che gli “ebrei istigano alla guerra”. Il sociologo Mark Elchardus, responsabile del citato studio, conclude che la convinzione sui valori del pluralismo e della diversità non è radicata nei giovani della regione fiamminga, sia di origine fiamminga che straniera, e non vi è una grande tolleranza tra i diversi gruppi, mentre l’idea dell’esistenza di un crogiolo omogeneo e armonioso, dentro il quale interagiscono e si armonizzano le diverse culture in un rapporto di mutuo rispetto e valorizzazione della diversità, rimane ancora molto lontana dal realizzarsi.

     

    Malgrado la realtà cosmopolita della città, si osserva che nei tanti gruppi etnici, culturali e religiosi della sua scena sociale, (e in particolare, tra gli ebrei, i marocchini, gli indiani ed i pakistani), è radicata una forte coscienza del vivere comune in gruppi ripiegati su se stessi (Communautés closes), gruppi che non hanno intenzione o non sono in grado di integrarsi in quella società locale multiculturale. Così sono andate formandosi piccole “società” separate e isolate, che talora entrano in contatto l’una con l’altra per interessi contingenti o interagiscono tra di loro nelle poche occasioni sociali e/o cerimoniali. Ogni gruppo vive isolato e chiuso. I confini geopolitici delle madrepatrie e il discorso religioso ortodosso, radicale e fanatico, a volte, hanno importanza nella costruzione di questa coscienza, così l’individuo rimane sempre legato al suo paese, alle sue tradizioni e ai suoi costumi, immerso nella specificità del suo gruppo, nelle sue questioni religiose e nella sua visione dell’altro, di chi è diverso da lui. Per questi motivi la città di Anversa rimarrà un vero e proprio banco di prova per i diritti finora conquistati e le nuove sfide sollevate dalla problematica dell’immigrazione e la convivenza tra culture e religioni diverse. Quando i valori della cittadinanza, dell’uguaglianza, della giustizia e dell’equità si saranno consolidati maggiormente, si potrà finalmente trovare il modo di scongiurare lo scontro che si alimenta di incomprensioni e di estremismo.



    La posizione del quartiere Borgerhout nel centro della città di Anversa e i quartieri circostanti

     

    Il quartiere Borgerhout costituisce uno dei nove comuni della città di Anversa, e lo caratterizza un’alta densità della popolazione: vi risiedono 11.842 persone per chilometro quadrato. Ad ogni individuo spetta un metro quadrato del suolo pubblico e il numero degli abitanti ha raggiunto circa quota 46 mila nel gennaio del 2013. Il comune è diviso in due zone: la prima è costituita da Borgerhout dentro le vecchie mura, “Borgerhout intramuros” dove ci sono edifici fatiscenti, strade strette ed un’alta densità di immigrati, soprattutto fra i marocchini, e la seconda costituita da un quartiere nuovo, delimitato da una grande e lunga strada, Turnhoutsebaan, centro di grande attività commerciale. Il quartiere Borgerhout è considerato tra i più “giovani”, poiché il 26% della sua popolazione non supera i 18 anni; conoscerà nell’imminente futuro anche un imponente incremento della percentuale dei giovani grazie al crescente aumento della fertilità rispetto agli altri comuni.



    Inoltre, il maggior numero degli immigrati di origine marocchina risiede in questo quartiere. I marocchini, soprattutto gli amazigh provenienti dalla regione del Rif, costituiscono la maggioranza, poiché rappresentano più del 40% della popolazione del quartiere, e il 71% del totale dei gruppi etnici non europei residenti nel quartiere, perciò viene comunemente chiamato “il quartiere dei marocchini”. È normale trovare una presenza significativa di donne velate, molti panifici, bar e ristoranti marocchini. Il quartiere ospita anche un certo numero di moschee, con annesse scuole per l’insegnamento del corano e della lingua araba ai bambini degli immigrati musulmani, frequentate soprattutto durante le vacanze e al di fuori dell’orario scolastico statale.



    Il quartiere Borgerhout non è considerato fra i quartieri poveri, o fra i quartieri periferici disagiati e marginali, come nel caso dei ghetti di Molambeek e Sharbeek a Bruxelles. È un quartiere vicino al centro città, caratterizzato da una architettura moderna e della presenza di case e palazzi decenti, puliti e ben organizzati. Inoltre, non è annoverato fra i quartieri dove si trovano zone grigie, cioè dove la polizia si mostra riluttante ad entrare, e non conosce il fenomeno del regolamento violento di conti tra le bande di malavitosi, anche se vi è diffuso, invece, lo spaccio della droga e tutti i furti ad esso associati[22]. Pur essendo benestante, questo quartiere non rientra fra quelli lussuosi, in virtù del fatto che fa parte dei comuni ubicati a nord di Anversa penalizzati da agglomerazioni urbane e densità abitativa.



    Questo quartiere ha conosciuto negli anni trenta del ventesimo secolo una grande prosperità e la sua popolazione ha raggiunto in totale i 50 mila abitanti. Ma, dopo la seconda guerra mondiale, ha subito un forte calo della popolazione: la crescita economica degli anni sessanta ha permesso agli abitanti di origine fiamminga di comprare o costruire case nelle campagne, svuotando così il quartiere dalla sua popolazione. Ciò ha coinciso con l’importazione in Belgio della mano d’opera marocchina, di cui il paese aveva un grande bisogno. Inoltre la vicinanza del quartiere alla stazione dei treni, con i collegamenti per Bruxelles e le città francesi, e la scarsa densità abitativa, favorì l’insediamento degli immigrati marocchini di prima generazione. All’inizio arrivarono da soli dai villaggi rurali del Rif del nord del Marocco, in maggioranza contadini appartenenti alla stessa tribù (c’è una presenza numerosa di immigrati della tribù Bni Tuzin nel quartiere, provenienti dalle regioni di Nador, Hossima, Driouch), e successivamente furono raggiunti dalle loro mogli e figli, nell’ambito del ricongiungimento famigliare, quando decisero di stabilirsi e di risiedere definitivamente in Belgio. Considerato che la maggior parte non aveva mai vissuto in zone urbane, all’inizio gli immigrati marocchini incontrarono grande difficoltà ad integrarsi nella grande città di una società occidentale europea da cui differivano drasticamente in termini di costumi, di cultura e di abbigliamento..



    Negli anni ottanta e novanta, giunse in Belgio la seconda generazione, costituita per la maggior parte da figli di immigrati della prima generazione, prevalentemente di età superiore ai sei anni, oltre ad una percentuale di studenti disoccupati con diplomi e lauree universitarie. Grazie al loro impegno e al loro lavoro condotto con continuità e serietà, si andò formando una classe media forte di immigrati marocchini, di entrambe le generazioni, che riuscì a comprare la maggior parte delle case del quartiere, rendendo la popolazione di origine fiamminga una minoranza. Anche un gruppo di intellettuali progressisti e attivisti nelle associazioni civili risiede a Borgerhout, il che contribuisce ad orientare spesso il voto a favore del movimento socialista.



    Dentro il quartiere convivono mondi simmetrici e, a volte, contrapposti. La diversità etnica e culturale dei suoi abitanti è minima, poiché la maggior parte dei residenti è costituita da immigrati di origine marocchina, mentre una mera minoranza è di origine fiamminga. E malgrado ci siano molti luoghi dove la maggioranza e la minoranza si incontrano, non si registra interazione e comunicazione tra i due gruppi, i quali tendono a chiudersi ognuno all’interno del proprio mondo. Persino in occasione di grandi festival cittadini che si tengono in prossimità del quartiere, come la tradizionale festività locale dei “giganti di Reuzenstoet”, non vi è una partecipazione degna di nota degli immigrati di origine marocchina.

    Oltretutto, nel quartiere una percentuale di fiamminghi di età avanzata si lamenta del disturbo della quiete pubblica causato dalla presenza cospicua di giovani marocchini la sera e la notte nelle strade. In realtà, il numero importante di marocchini nel quartiere e l’impatto nei luoghi pubblici di uno stile di vita legato alla loro identità e alla loro cultura di origine fanno sì che molti fiamminghi li guardino con diffidenza, se non con razzismo.



    Molti diffusi stereotipi e luoghi comuni si nutrono della diffidenza e dell’insicurezza nei confronti dei marocchini: ad esempio spesso si racconta di come le donne fiamminghe anziane in questo quartiere nascondano la borsa sotto il braccio quando escono, e si guardino dal portare gioielli costosi per timore di essere derubate. A questo proposito, Wouter Van Besien, l’ex leader del partito dei Verdi fiammingo, ha dichiarato che: “Alcuni abitanti si sentono minacciati e rifiutano gli immigrati e la loro cultura, perché non tutti i marocchini parlano il fiammingo, e arrivano qui con la loro lingua, le loro abitudini, il loro modo di vestirsi, la propria cultura di strada, passeggiando in gruppi nei luoghi pubblici.

    La loro presenza è forte e questo disturba” . L’estrema destra fiamminga ha sfruttato questa situazione e ne ha tratto vantaggio nella famosa “domenica nera”, durante le elezioni legislative del 1991, quando il partito Vlaams Blok è riuscito a ottenere il 33% dei voti a Borgerhout e il 35.3% nelle elezioni comunali del 2000. È stato l’inizio della clamorosa ascesa dell’estrema destra nazionalista nella città di Anversa.



    Persino tra gli immigrati di origine marocchina, vi sono due mondi simmetrici, privi di una vera e propria comunicazione: da una parte, gli appartenenti alla classe media, coloro i quali sono riusciti a crearsi un certo benessere sociale, hanno case di proprietà e una situazione professionale stabile e, dall’altra, tutti quelli che vivono nella precarietà sociale e professionale o sopravvivono coi sussidi sociali.

    Recentemente, è incrementato il numero di immigrati di origine marocchina proveniente dall’Olanda e dalla Spagna che ha avviato attività commerciali nel quartiere; molti di questi intendono ottenere la cittadinanza belga attraverso il matrimonio con donne marocchine che hanno già la cittadinanza. E non dimentichiamo la presenza nel quartiere di una percentuale di giovani immigrati marocchini clandestini, in attesa di regolarizzazione.



    Il quartiere Borgerhout è simbolo delle problematiche e delle contraddizioni che oggi i giovani della terza generazione di immigrati si trovano a vivere: dal fallimento scolastico e la difficoltà dell’integrazione sociale all’estremismo religioso. Per questo viene definito come “il quartiere che crea problemi”, in cui si assiste a continui scontri fra polizia e giovani, talora quest’ultimi vittime di atteggiamenti razzisti da parte degli agenti, e dove si verificano, a volte, atti di vandalismo, furti e scassinamenti alle proprietà pubbliche e private, e dove anche la percentuale del fallimento scolastico è molto elevata. Le correnti Salafita-Jihadista hanno avuto largo seguito fra gli abitanti del quartiere Borgerhout: in diverse occasioni, i loro leader hanno mobilitato i giovani per manifestare e li hanno incitati ed incoraggiati ad andare a combattere in Siria e in Iraq; forse la più nota è l’organizzazione di “Sharia per Belgio: Sharia 4 Belgium” .



    Questo quartiere era, e rimane ancora, oggetto di stigma e di disprezzo da parte dei belgi, ed in modo particolare dei fiamminghi, per la grande somiglianza con Molenbeek a Bruxelles. È incarnazione, ai loro occhi delle tensioni legate al tema dell’immigrazione: basti pensare che, all’apice della penetrazione dell’estrema destra nella città, il quartiere Borgerhout, veniva ironicamente chiamato “Borgerokko”, con una commistione in lingua fiamminga tra Borgerhout e Marokko. Questa sorta di sarcasmo a sfondo razzista sottolineava appunto la preponderante presenza della cultura marocchina: una volta entrati lì sembrerà di essere in Marocco, non in Belgio.

     

    Identità frantumate, indecisione, senso di vuoto e di non appartenenza



    Grazie ai primi risultati dello studio, ci è apparso chiaro che la maggior parte dei giovani con i quali abbiamo parlato, e ai quali abbiamo dato ascolto durante questa nostra indagine sul campo, nutre un sentimento profondo di vuoto e di inutilità e non ha nessun obiettivo nella vita. Questo è evidenziato dalla grave rottura identitaria che questi giovani si trovano a vivere. Pur essendo cittadini belgi, nati e cresciuti in Belgio, si sentono sempre estranei e stranieri, appartenenti solo formalmente a una patria che si chiama Belgio.

    Ma non hanno nemmeno un forte legame col Marocco, anzi per la maggior parte, non sentono il bisogno distare in contatto con il paese originario e di essere fedeli alla propria origine e a quella dei padri e nonni; non vanno spesso in Marocco, o soltanto per dei brevi periodi. Sono giovani in crisi, né belgi né marocchini, spesso non sanno chi sono. E alla domanda: “chi sei?” hanno risposto soprattutto con gli sguardi, facendo trapelare il disagio e l’inquietudine esistenziale nel convivere con un’identità fluida ed incerta. Allo sbando, sono alla ricerca costante di un ideale, di un senso da dare alla vita e di un rifugio sicuro che li protegga dalla durezza dell’isolamento, della non appartenenza e dall’instabilità famigliare, professionale e sentimentale.



    Lo shock provocato nei giovani marocchini da comportamenti discriminatori o dal venir considerati come stranieri, nonostante i loro tentativi di integrazione sociale, e allo stesso tempo la loro lontananza dalle tradizioni e la cultura dei genitori, avvilisce e/o scatena in molti di loro reazioni di rabbia, contribuendo ad alimentare il conflitto perenne con se stessi e gli altri per ottenere un riconoscimento. A volte la salvezza arriva attraverso l’illusione di appartenenza a identità cosmopolite transnazionali, transgeografiche e transculturali, sia sotto forma d’appartenenza ad un’ identità culturale, etnica e linguistica inclusiva (Amazigh, Rif ) sia d’appartenenza a un’identità virtuale globale capace di calarli nello spirito di quest’epoca, tramite i social media e i viaggi all’estero. Oppure tramite l’appartenenza a un’identità islamica globale esclusivamente religiosa, in virtù della quale si fanno portavoce della causa islamica con le sue annesse tragedie, fino all’immedesimazione e solidarietà totali con i musulmani sparsi per il mondo e vittime di qualsivoglia ingiustizia o sopruso.



    Si evidenzia il disagio e lo strappo identitario della terza generazione (la prima categoria); i figli di questa generazione pur avendo molteplici connessioni socio-culturali e religiose, soffrono di una forte crisi di appartenenza, che rende la maggior parte di loro incapace di scegliere consapevolmente la loro identità. La domanda “chi sei?” è emblematica della violenza psicologica e morale a cui si sentono sottoposti e che mette alla prova la loro integrità psichica.

    Molti di loro hanno proseguito affermando la propria appartenenza a molteplici identità, pur sentendosi perplessi e amareggiati alla fine della conversazione perché non provano un senso di vera e profonda appartenenza verso nessuna di esse. Quindi, l’unica risposta che li consola temporaneamente è: “in realtà io non so chi sono”. La risposta “non so” è indice di una crisi identitaria e del tentativo sornione di eludere in modo intelligente la domanda assillante: l’appartenenza è per il paese d’origine o per il paese di nascita? La lealtà va alla patria o alla religione?



    Questi giovani si sentono estranei alla loro patria, il Belgio, e non si considerano cittadini belgi con pieni diritti come gli altri, anzi hanno la percezione di essere stranieri indesiderati, diversi dai belgi autoctoni ai quali nulla li lega o li accumuna. Dice un giovane del quartiere, Nourddine, con forte disapprovazione: “A scuola mi soprannominavano capraio e scimmia, mi sentivo veramente diverso da loro; anche i professori ci facevano sentire diversi, oggi non mi importa nulla. Qualunque cosa facciamo, rimarremo sempre estranei e stranieri per loro. Ma dovete sapere che questo mi va bene, io non li sopporto, perché sono loro la causa del mio sentimento oggi. Hanno sfruttato molto i nostri genitori, ma oggi non permettiamo loro di sfruttarci. Io sono Belga malgrado loro, e che se ne vadano da qui se la cosa non gli piace”.



    Quando a qualcuno viene posta la domanda della scelta fra la priorità di appartenenza alla patria Belga o all’Islam: “Sei Belga musulmano o musulmano Belga?”, la risposta, senza esitazione, del 92% dei giovani intervistati è: “Sono musulmano Belga” (vedi tabella 2). Questo può essere spiegato dalla mancanza di un senso di appartenenza alla patria (il Belgio), e dal fatto che non venga loro dato il giusto riconoscimento nel paese. Molti di loro ripetono spesso: “Il Belgio ci ha abbandonato e non si occupa più di noi” e “non siamo a casa nostra”; di conseguenza, questi giovani tendono ad assimilarsi ad un’identità più ampia della cittadinanza, che offra un senso alla loro vita, come l’appartenenza alla Umma islamica.



    Dice Ayman, un diciannovenne, che fa lavori stagionali da irregolare : “In realtà non posso rispondere, io non so chi sono: io sono un berbero che parla il dialetto del Rif a casa, devo essere un fiammingo a scuola, dove parlo e mi comporto come loro, per strada invece parlo come voglio io, nessuno può costringermi a fare altrimenti. Ma non vedi che siamo musulmani? Sì, l’Islam è la nostra vera identità, io sono marocchino e non mi sento Belga, però aspetta, credo di essere musulmano prima di tutto, e questo mi basta. Il fatto di pensare a tutte queste domande mi infastidisce molto”.

     

    Non è una coincidenza che alcuni giovani europei musulmani che si schierano con “Al- Qaida”, o il cosiddetto “ISIS”, nutrano un’avversione verso quelle che vengono chiamate le “appartenenze nazionali ristrette” e si considerino “viaggiatori trans-identitari”: creino cioè patrie virtuali più ampie via internet senza aver bisogno di radicamento territoriale e lealtà identitarie nazionali. Dice un giovane di Anversa, partito a combattere in Siria: “Insorgiamo per i musulmani, ovunque si trovino. Perché? Perché la nostra patria è una, e il nostro sangue è uno e la nostra guerra è una”.



     

    Peraltro questi giovani si sentono stranieri anche nel Rif (la regione del Marocco da dove provengono i genitori o nonni) e non riescono a integrarsi facilmente nella società locale. La gente del Rif non capisce la lingua fiamminga, neanche quando viene usata in versione “ibrida”, cioè in una commistione di fiammingo, di berbero del Rif e di dialetto marocchino. Motivo per cui la comunicazione diventa difficile: vengono capiti a stento dai marocchini autoctoni, e si sentono presi in giro da tutti per il loro modo di parlare.



    La rottura identitaria per i figli della terza generazione, dunque, è legata anche alla lingua, in quanto si esprimono in fiammingo nelle scuole e nei luoghi pubblici, invece a casa e con gli amici parlano un misto di fiammingo e dialetto berbero del Rif. Anche molti genitori non parlano bene la lingua fiamminga, ma solo il dialetto del Rif e questo, quando tornano in Marocco, comporta difficoltà a livello comunicativo con i loro coetanei marocchini.

    Per quanto riguarda la prima generazione, molti di loro, nonostante la permanenza in Belgio per quasi mezzo secolo, ancora non parlano bene la lingua fiamminga e hanno limitate capacità comunicative dovute al fatto che sono rimasti attaccati alla loro lingua madre, il dialetto berbero del Rif. Il paradosso è che costoro sono riusciti a tessere una rete di solide e funzionali relazioni comunicative con molti belgi fiamminghi.


    I giovani sono confusi e in difficoltà, stretti fra la cultura dei loro genitori e nonni e la cultura europea occidentale, nella quale devono integrarsi. Di conseguenza alcuni di loro decidono di rompere con tutto: con il modo di credere e di pensare dei genitori e con la cultura della società belga in cui sono immersi. Il conflitto perenne tra le diverse identità li spinge alla ricerca continua e strenua di obiettivi e identità in cui possano trovare la loro essenza esistenziale. E non sono neanche soddisfatti della loro appartenenza identitaria, della quale non si sentono sicuri, e nella quale si confondono, al tempo stesso , sentimenti di appartenenza culturale e sociale antagonisti fra loro a vari livelli. Si tratta di una sorta di doppia alienazione: non si sentono belgi, e allo stesso tempo, non trovano una connessione con le loro origini marocchine. Ma la cosa più importante è che c’è una percentuale di giovani che soffre di una forma di alienazione complessa e di una serie di disturbi che vanno dalla rabbia allo stress fino ad arrivare all’incoerenza psichica. Tutto ciò viene chiamato dallo psicologo Erik Erikson la “confusione identitaria”, incarnata dal fallimento della costruzione di un’identità indipendente e coerente. Tale condizione implica aspetti di confusione, inquietudine e disgregazione interna ed anche isolamento e incapacità di definire il senso dell’esistenza.

     

    Il grande paradosso è che, quando parliamo con gli immigrati di prima generazione, non avvertiamo nessuna crisi identitaria, piuttosto, percepiamo una certa coerenza nella loro convinzione di essere capaci di convivere con molte identità, tra diverse identità, senza che ciò crei loro problemi.



    Durante le interviste effettuate, ci è apparso chiaro l’esistenza di una profonda crisi comunicativa nei giovani che accresce il loro isolamento dall’ambiente sociale circostante e contribuisce a rotture identitarie. È come se loro si chiedessero: “Perché tutti parlano di noi? Perché non parlate con noi? Noi abbiamo bisogno di essere ascoltati!”. È evidente che questi giovani sono frustrati per l’immagine negativa stereotipata che si sentono proiettati addosso.

    Nei media europei in generale, e in quelli belgi in particolare, sono spesso dipinti come un “problema” connesso alla criminalità, al vandalismo, al sabotaggio, all’estremismo, alla droga, al disturbo della quiete pubblica …ecc. I giovani di origine fiamminga non esitano, soprattutto sui social media, a insultare i giovani marocchini e a descriverli col termine: “caprai”, esortandoli a tornare alle montagne da dove provengono i loro genitori e i loro nonni. E, anche in Marocco, questa generazione di giovani si sente vittima di stigmatizzazione e sospettata di essersi arricchita troppo velocemente (talvolta con mezzi illeciti come lo spaccio di droga) e di eccessiva appariscenza, nello sfoggio di macchine lussuose e costosissime o nell’organizzare feste di nozze fastose.

     

    Chiusura degli orizzonti e sensazione fatale di inutilità



    Fra i giovani di Borgerhout di questa categoria serpeggia un sentimento negativo generale di smarrimento, di mancanza di orizzonti, un senso di inferiorita`per il fallimento scolastico e professionale. La convinzione di aver fallito nella vita ha contribuito ad accrescere il loro senso di straniamento sentimentale, sociale e politico. Ciò li ha resi incapaci di relazionarsi con le istituzioni e la società e con gli altri, i “diversi”, inasprendo invece il sentimento di fuga dalle responsabilità e il tentativo di sottrarsi ad esse. La romanziera Rachida Lamrabet, che proviene dallo stesso quartiere, dice: “Vedo una massa inerte di giovani sprovvisti degli strumenti necessari per realizzare l’ascesa sociale, ed osservo anche una popolazione chiusa su sé stessa; a causa dell’insuccesso sociale ed economico questa massa abbraccia la religione.”



    E in assenza di prospettive in una società inclusiva (société inclusive), questi giovani iniziano a cercare una nuova identità che supplisca all’assenza di mediazione sociale (la famiglia, la scuola, le associazioni civili…), tramite nuovi mezzi di normalizzazione sociale quali lo sviluppo della cultura del quartiere (la culture de quartier) e la cultura del gruppo e delle bande urbane (bandes urbaines), le cui attività consistono principalmente in furti, spaccio e consumo di stupefacenti. L’appartenenza a tali bande conferisce loro un’identità collettiva compensativa e alternativa in cui alla violenza fisica e verbale si mescola il desiderio di potere e la volontà di affermazione tra i propri pari. Le chiassose scarrozzate in macchina nelle strade di Anversa sono un esempio lampante.



    Di conseguenza vivono in una società parallela, isolata dalla società della maggioranza, in cui si organizzano secondo leggi e rituali speciali. Strutturandosi attraverso pratiche socio-culturali proprie e specifiche, queste comunità possono essere qualificate come ghetti “auto costruiti” (Ghettos autoconstruits) all’interno dei quali gli individui contribuiscono, in parte, ad accrescere l’emarginazione e la chiusura verso gli altri. Questo può portare alla costruzione di una mini-società o contro–società (contre-société) attraverso la consolidazione di un tipo di comportamento sociale e culturale peculiare e reti di solidarietà collettive, incentrate sulla sacralizzazione delle appartenenze e dei valori identitari, etnici e linguistici per affrontare il disprezzo e le diverse forme d’esclusione, delle quali, secondo loro, sono vittime e che trasformano, ai loro occhi, l’intera società in una società esterna e loro aliena.

     

    La tendenza di ragazzi e ragazze a radunarsi in gruppi di quartiere con coetanei offre loro la possibilità di stabilire dei rapporti sociali che compensino la fragilità del legame che li unisce alla società in senso lato. Formando dei gruppi omogenei, solidali fra loro, intendono dimostrare di valere ed essere qualcuno per strada e nei bar che frequentano in modo tale da facilitare la ricerca di risposte alle domande inerenti alla loro origine, religiosità, relazione con gli altri e posizione nella società Inoltre, la mancanza di integrazione in un tessuto societario compatto e il sentimento d’insicurezza identitaria e culturale li spinge a ricorrere a diverse forme di violenza e vandalismo, o a nascondersi dietro apparenze di identità etnica, culturale e religiosa (abbigliamento, modo di parlare, atteggiamenti…).

    Ciò dà luogo ad una cultura comunitaria (Communautarisme), in cui la mobilitazione identitaria, religiosa e etnica diventa un’arma per resistere e autoaffermarsi – e anche per ottenere il riconoscimento atteso. Imad, giovane disoccupato, dotato di uno spirito di leadership fa notare: “Io e i miei amici non accettiamo di essere umiliati da nessuno, né di essere presi in giro, nemmeno dalla polizia, noi siamo sempre insieme, siamo berberi del Rif e siamo musulmani, conta solo il nostro orgoglio. Qui in strada, uno deve essere forte, per ottenere il rispetto e il riconoscimento da tutti. Tutti i miei amici sono originari del Rif e parlano la mia lingua, non permettiamo ai belgi e ai fiamminghi di sfruttarci come hanno sfruttato i nostri genitori, noi non li temiamo”.



    Forse l’apice della ricerca di un senso e dell’utilità della loro vita è la trasformazione delle identità “ferite” dei giovani ragazzi e ragazze in identità “fatali”, che portano cioè all’autodistruzione, tramite la radicalizzazione violenta e l’incitamento a partire per il “Jihad” L’inquietudine e il disturbo identitari dovuti alla chiusura degli orizzonti rendono la maggior parte dei giovani vittime di una fragilità acuta e profonda, pronta ad esplodere in una violenza nichilista che va oltre ogni logica e si trasfigura nel mito dell’eroe combattente e martire disposto a qualunque cosa per salvare la propria identità contro l’altro.



    Sembra che il doloroso sentimento di vuoto e di inutilità spinga alcuni giovani ad aggrapparsi a un mondo immaginario collettivo ed eroico, rappresentato dal “ beato Califfato islamico” con la fierezza di appartenere alla grande Umma Islamica e prendere parte in progetti quali l’ “Isis” o il fronte Al-Nusra e di unirsi ai “Jihadisti” in Siria e in Iraq. Questi giovani credono di trovare nel “Jihad uno strumento per dare senso alla loro vita”, un rifugio sicuro per la realizzazione identitaria e per ritrovare l’autostima perduta nella società belga. Abdurrahman ci racconta spontaneamente mentre sorseggia una tazza di tè marocchino in un bar a Borgerhout: “Mio padre e i miei quattro fratelli maggiori erano sempre fuori casa, li vedevo soltanto per un brevissimo tempo di notte, dopo essere rincasati dal lavoro.

    Non mi piaceva la scuola, preferivo vagabondare per le strade con i miei compagni. Ho abbandonato gli studi, poi ci sono tornato, su pressione di mio padre, iniziando una formazione professionale in falegnameria. Non mi importava nulla di tutto ciò e ho lasciato di nuovo dopo solo due mesi. Ho provato tutto, fin da piccolo, ho fumato l’hashish, ho bevuto la birra e il vino, ho frequentato spesso villa Tinto, ho spacciato persino droga e ho anche rubato.

    Alla fine, con un gruppo di miei amici, sono stato guidato da Dio alla preghiera, alla recitazione del corano e all’applicazione della sharia nella vita. Dopo un po’, la cosa non era più così appassionante, ma ora, desidero unirmi a El-Jihad in Siria per riparare alle ingiustizie perpetrate sui nostri fratelli musulmani là. Ho visto delle splendide immagini di giovani del quartiere con in spalla il fucile, nel Levante, ed è quello che desidero, non ho niente da fare qui a Borgerhout”.



    Alcune stime indicano che circa 70 tra ragazzi e ragazze, della regione Borgerhout, sono partiti a combattere in Siria, ed è per questo che Al-Zahra Otman, la presidente del consiglio del comune Borgerhout, ha lanciato un “appello per soccorrere i giovani che non trovano nessuno che gli presta ascolto; un appello che deve avere valore e utilità sociale, poiché spesso questi giovani vengono considerati nullità o peggio “feccia”. Abbiamo notato che molti di loro hanno l’ossessione di dimostrare alla famiglia e alla società il proprio valore e utilità per ottenerne apprezzamento e stima.



    Nonostante i numerosi esempi di giovani di origine marocchina che hanno fatto carriera nel quartiere Borgerhout, e sono riusciti tra mille sforzi a realizzarsi in svariati settori ( l’arte, lo sport, la letteratura, l’insegnamento universitario, il mondo degli affari ecc.), spesso molti giovani lamentano l’assenza di modelli positivi da imitare e da seguire nelle loro famiglie e nel quartiere. L’ 88 per cento dei giovani intervistati ha dichiarato di non essere attratto da nessuna figura sportiva o politica o religiosa in Belgio, confermando invece la grande ammirazione per i giocatori di calcio del Barça e del Real Madrid, soprattutto Messi e Ronaldo. E molti hanno confessato di avere le foto di entrambi i giocatori appesi nelle loro camere.



    È noto che nella città di Anversa, e in particolare nel quartiere Borgerhout, si assiste spesso al termine delle partite di calcio a disordini e scontri soprattutto quando giocano il Barça e il Real Madrid. È una sorta di immedesimazione emotiva collettiva, uno sfogo per liberare le energie e i sentimenti di frustrazione e il desiderio inconscio di trasferire la vittoria sul campo di calcio nelle sfide del vivere quotidiano. Ad esempio, il sabato sera del 4 giugno 2011, dopo la partita tra il Marocco e l’Algeria conclusasi con la vittoria del Marocco con 4 gol a zero, sono scoppiati scontri con la polizia, soprattutto nel quartiere Borgerhout. In seguito ci sono stati festeggiamenti chiassosi per la vittoria che hanno dato luogo ad agitazioni e causato la distruzione di proprietà pubbliche provocando l’arresto di alcuni giovani di origine marocchina. Inoltre, ogni volta che ai mondiali vince la squadra belga o marocchina, la strada principale di Borgerhout si intasa, con uno strepitio di clacson, musica a tutto volume e macchine che sfrecciano ad alta velocità.



    Conclusione

     

    Sembra che lo squilibrio dei riferimenti identitari presso i giovani della terza generazione di immigrati sia causa di crisi profonde a livello di integrazione sociale, culturale e persino politica. Perciò dobbiamo concentrarci sul sentimento di appartenenza di questa categoria di giovani ed impegnarci sul rafforzamento della fiducia in loro stessi per promuovere i valori di cittadinanza, il diritto alla diversità e alla convivenza sociale. Ricercatori in varie discipline e specializzazioni ammettono che vi è oggi una mancanza di interesse in Belgio e in tutta Europa, per progetti multiculturali e multi-identitari e inerenti sfide, e che le società europee dovrebbero fare autocritica e adottare nuove strategie per aiutare questi giovani ad uscire dalla palude dell’isolamento e della ferita identitaria aprendo così la strada a un mondo inclusivo che dia accoglienza a tutti.


    Il disagio e disadattamento che provano alcuni giovani e che li spinge all’estremismo non è affatto legato alle politiche belghe sull’immigrazione o alla religione, ma è una sorta di malcontento generale e senza un obiettivo chiaro, che esprime lo smarrimento identitario e psicologico causato dallo stigma, dal senso di inferiorità e dalla mancanza di riferimenti e modelli positivi nei loro gruppi di appartenenza locale.

     

    Sarà deluso chiunque volesse cercare le cause dell’estremismo religioso di questi giovani e i motivi che li spingono a compiere attacchi terroristici nel cuore dell’Europa o a lasciare il luogo natio e la famiglia per andare a combattere in Siria e in Iraq, nella mobilitazione religiosa, nel retaggio e pensiero religiosi o nel fallimento scolastico e nella disoccupazione. Per avere delle risposte, bisogna superare gli schemi riduzionisti e ricorrere ad un approccio multidimensionale. Ci sono fattori multipli e complessi da considerare tra cui la mancanza di autostima che si aggiunge al senso di inferiorità, il sentimento di frustrazione e malcontento nei confronti della società, nonché la diffusione del razzismo e la fragilità sociale.

    Sarebbe molto importante provare a capire la visione del mondo di costoro, la percezione che hanno di sé stessi e della loro identità; di comprendere il loro rapporto con l’ ambiente circostante e con “l’altro”, il diverso dal punto di vista religioso e culturale.



    Sono giovani smarriti e sradicati, incapaci di trovare degli equilibri positivi fra la loro identità religiosa, culturale e linguistica da un lato, e la cultura del paese di accoglienza al quale ormai appartengono, dall’altro. Perché anche se sono giovani musulmani marocchini che appartengono alla cultura araba e berbera, allo stesso tempo sono cittadini belgi europei, ma incapaci di far propria questa doppia appartenenza e trasformarla in energia positiva che dia loro autostima e li valorizzi. Non si considerano parte della società belga, non si sentono in sintonia con i gruppi locali nei quartieri in cui risiedono e contemporaneamente vivono un rapporto di conflittualità con la generazione dei loro genitori e nonni per i valori non condivisi e il modo di intendere la religione.


    ____________________________

     

    Mohamed Saadi: Pofessor on Human Rights and Political Science at Mohammed I University , Oujda, Marocco.

     

    Nassih Redouan: docente di lingua, letteratura italiana e letteratura comparata presso la Facoltà di Lettere e Scienze Umane di Casablanca, ha studiato presso l’Università di Bologna – Dipartimento di Italianistica. Specializzato nell’Orientalismo italiano e nella storia degli arabi nel sud dell’Italia, in special modo la Sicilia saracena, ha contribuito alla nascita del secondo Dipartimento di studi italiani a Casablanca dopo quello già esistente a Rabat, la capitale del Marocco. Svolge anche l’attività di traduttore per enti pubblici e privati. Dal 2010 al 2020 ha ricoperto l’incarico di capo del Dipartimento degli studi italiani presso la Facoltà di Lettere e Scienze Umane di Casablanca. Membro del laboratorio degli studi sulle civiltà del mediterraneo.

     

    Zineb Saaid, scrittrice marocchina, vive in Italia da oltre dieci anni, insegnava arabo all’Università SSMI di Vicenza e di Belluno



    LINK AL TESTO ORIGINALE
    in www.el-ghibli.org

 

 
     
Edizione RodAlia - 22/11/2021
pubblicazione consultata 323 volte
totale di pagine consultate 871302
Copyright 2008- Ideazione e Coordinamento di Romualdo Guccione - Realizzazione tecnica del sito di Enzo Callari -