Ambito di Ricerca:Le relazioni positive tra le diversità
NON SMETTE DI PIOVERE
Non smette di piovere Mario Anton Orefice
di MARIO ANTON OREFICE
Una pioggia leggera e
tenace bagna i masegni di Piazza San Marco in questo mercoledì di
giugno. La bandiera italiana e quella marocchina sventolano insieme per
l’apertura del primo Festival italo-marocchino. Sotto i portici delle
Procuratie un viavai di persone, l’impazienza prima che si apra il
sipario, la speranza che smetta di piovere. I gruppi in costume
accordano gli strumenti, accennano qualche motivo tradizionale.
Abdallah e Antonio sono emozionati e corrono da una parte all’altra
dispensando sorrisi, risposte, e gli ultimi suggerimenti. Anche loro
guardano spesso il cielo. Una coppia strana, Abdallah Kherzraji, nato a
Safi, mediatore culturale e presidente del circolo culturale Hilal in
viale Monfenera a Treviso, e Antonio Calò, nato a Barletta, professore
di storia e filosofia al Liceo classico Canova di Treviso.
In attesa
che smetta di piovere si potrebbe cominciare proprio da loro due, come
si sono conosciuti un immigrato e un professore? Certo le parole non
aiutano, immigrato indica già qualcuno che nella storia non si porta
appresso una buona fama, l’immigrante, l’extra-comunitario, è sempre
stato ritratto come un poveraccio con le valigie di cartone o con i
sacchetti di plastica. Sarebbe forse meglio usare per tutti la
nazionalità, in questo caso un marocchino e un italiano, ma facendo
così si perde una parte della storia. Forse è più interessante capire
il perché, un perché che si riflette nelle loro biografie come i
contorni delle nuvole sui masegni bagnati dalla pioggia. Abdallah è
nato a Safi nel 1966, arriva in Italia all’inizio degli anni Novanta,
il primo domicilio sono le tende che la Caritas ha allestito nel
quartiere San Paolo.
Dopo un
impiego come operaio in un’azienda tessile, comicia a interessarsi dei
problemi degli immigrati, entra in contatto con varie associazioni e
dimostra di essere un mediatore in gamba. L’interesse per l’altro è uno
dei suoi chiodi fissi, come il desiderio di far conoscere la cultura
del suo paese agli italiani che incontra lungo la sua strada. A metà
degli anni Novanta fonda il circolo culturale Hilal (in arabo vuol dire
mezzaluna) in Viale Monfenera che oggi conta 500 iscritti. Un angolo di
Marocco lungo le mura di Treviso, qui è possibile sorseggiare un tè
alla menta, degustare il couscous e ascoltare la musica
gnawa. È vicepresidente della consulta
regionale per l’immigrazione che rappresenta 530.000 migranti, e
conosciuto a livello nazionale per i suoi interventi di mediazione.
Antonio Calò, invece è nato a Barletta il 7 novembre
del 1961. Dopo aver conseguito due lauree, una in filosofia con la tesi
Il progresso e la filosofia
della storia in Condorcet, e una in teologia con la tesi Il significato e il problema della
retribuzione in Giobbe,
inizia la sua carriera di insegnate e nello stesso tempo coltiva
un’intensa attività culturale come direttore scientifico
dell’associazione culturale Jacques Maritain e come consulente di
progetti interculturali sulle radici comuni dei cittadini europei. A
pensarci bene c’è una cosa che li collega fin dalla nascita, un mare
che dovrebbe rendere paesani spagnoli e greci, marocchini e italiani,
il Mediterraneo, il mare dell’Odissea o delle Odissee, con i suoi
confini da raggiungere e superare, quel viaggio da compiere per tornare
a casa. Forse è per questo che si sono incontrati una sera di aprile
del 2010 al circolo Hilal. A presentarli Guido Gasparin, Presidente
della cooperativa Solidarietà, una realtà unica nel panorama italiano,
un villaggio dove convivono famiglie “normali”,
famiglie di immigrati (Abdallah vi abita con la sua famiglia dal 1990),
una casa accoglienza, un ostello della gioventù, appartamenti per
ragazze madri in difficoltà e, tra un po’, anche un gruppo di anziani
autosufficienti. Un villaggio di umanità e fratellanza nel cuore di
Treviso.
“Davanti ad una tajine di mandorle e pollo, racconta Antonio Calò, ho
incontrato una grande persona, un uomo orgoglioso ma anche umile e
capace come pochi altri di tessere relazioni e di riunire attorno ad
una tavola culture diverse. Mi espose la sua idea di festa
italomarocchina e mi raccontò la sua vita: all’inizio mille modi per
sbarcare il lunario, poi il tempo dedicato ai connazionali, le relazioni
con gli enti pubblici e gli organi di polizia, la creazione del circolo
Hilal. Mi parlò del cous cous più grande del mondo, dell’incontro fra
musica andalusa e musica marocchina, ma mi fece anche capire che aveva
bisogno di un compagno di viaggio, di qualcuno con cui sviluppare e
discutere il progetto. Gli dissi che l’idea mi piaceva ma che era
essenziale coinvolgere le istituzioni ai più alti livelli perché
giocano un ruolo fondamentale nell’incontro fra popoli diversi.”
Non ha smesso di piovere, aspettare ancora non ha senso. A nome del
comune di Venezia prende la parola l’assessore alla cultura Roberto
Panciera che comunica anche l’importante riconoscimento del presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano al professor Calò: una medaglia di
rappresentanza per l’organizzazione del primo festival italo
marocchino. È poi la volta dell’ambasciatore del Marocco Hassan
Abouayoub che augura un continuo sviluppo dei rapporti tra i due paesi.
La festa può cominciare. La musica del bendir e del rebab accompagnano
un corteo matrimoniale, simbolo dell’incontro fra Italia e Marocco. Si
procede in circolo fra gocce di pioggia e sorrisi, tanti sorrisi, la
sposa indossa un prezioso abito bianco con i ricami dorati ed è portata
a spalla su un lussuoso trono decorato, lo sposo la segue a piedi in
una jellaba bianca. Il corteo anima la piazza, come un camaleonte
inaspettato si muove lungo i bordi pronto a ritirarsi con il crescere
della pioggia. Viene da pensare a un quadro, al titolo di un quadro che
non esiste: “Danza della sposa in piazza San Marco”. Viene da pensare
anche a quanto sia stupido chi pensi di essere migliore dell’altro.
Italia e Marocco sono paesi che hanno grandi questioni aperte. In
Marocco Tahar Ben Jelloun scrive “I problemi sono numerosi: primo fra
tutti è il flagello della corruzione. L’accattonaggio è una piaga; il
Ministero dello sviluppo sociale ha censito 200.000 mendicanti, 120.000
dei quali professionisti. Ma la cosa ancora più grave è l’assenza di
una cultura dell’uguaglianza, un anafalbetismo scandaloso (il tasso più
alto nel mondo arabo), una crisi costante dell’educazione nazionale, un
sistema della salute pubblica misero che offre grandi opportunità alle
carissime cliniche private e una giustizia che, a causa della
corruzione, non riscuote la fiducia dei più disagiati.” L’Italia, dal
canto suo, se dovesse dedicare un monumento alle vittime del
terrorismo, delle stragi, dei delitti di mafia, avrebbe bisogno di un
luogo simile al Vietnam Veterans Memorial di Washington: un muro con
migliaia di nomi. È una storia, quella della nostra democrazia, piena
di punti interrogativi, di contatti con la mafia e di false verità che
fanno venire i brividi. Il suono ipnotico dei qraqb della musica gnawa
risuona sotto le Procuratie, una folla italomarocchina forma un cerchio
intorno ai musicisti, la festa continua così come la pioggia che non ha
smesso per un attimo.
“Non sei abbastanza vicino”
Robert Capa diceva “Se le tue
fotografie non sono abbastanza buone non sei abbastanza vicino”. Per
capire un fenomeno, per comprendere un popolo, non hai altra
possibilità, devi avvicinarti, devi mangiare e cantare assieme a loro.
Il quattordici giugno è una di quelle giornate così calde che seduti
nel Frecciabianca non si può fare a meno di sentire la lamiera rovente
e abbacinata dal sole, e presagire l’aria calda come un phon che ci
investirà appena scesi dal treno. L’appuntamento con la Fiera
marocchina è a Verona, ore sedici Bastione Santo Spirito: ricostruzione
di un villaggio berbero con suk e rassegna d’artigianato. Abdallah non
è ancora arrivato, è rimasto bloccato in autostrada tra Mestre e Padova
est per un problema al sistema di alimentazione. Con lui ci sono gli
ospiti marocchini. In soccorso è partito subito Antonio Calò. Arrivano
stanchi ed affamati. Alla ricerca di un panino lungo l’assolata via
Magenta, finiamo nel bar di Enea Cipollini, barista scrittore poeta. Un
gigante dai modi bruschi e voce stentorea. Cipollini, a dispetto del
mite e giocoso cognome, non invita ordina: “Scegliete il tavolo che
volete, qui è tutta roba fresca”. Chi si aspetta sorrisi e gentilezza
rimane deluso, ma alla fine Enea con la sua barba e i capelli bianchi
raccolti in un piratesco codino ha solo voglia di raccontare la sua
vita in giro per il mondo e le delusioni ricevute da uomini e da
letterati. Come molti, ha deciso di pubblicare e vendere in proprio i
suoi libri che fanno capolino tra le bottiglie di Biancosarti e Long
John: Aspettando domani, Ieri, seimila anni fa. Pubblica anche in rete.
Sono milioni le persone che come lui scrivono su blog e social media,
un’esplosione della scrittura, della registrazione. Per narcisismo ma
anche per sopravvivere, per lasciare una traccia dopo di noi, una sorta
di esistenza ultraterrena, forse l’unica possibile, certo non quella
che ci piaceva immaginare da bambini, quel luogo dove rincontrare le
persone care e in cui i cattivi soffrono le pene dell’inferno.
Il
profumo del tè alla menta conduce attraverso il piccolo suk creato
all’ombra delle mura: le teiere in alpaca cesellate a mano con il
bulino, le scacchiere di cedro intagliate nelle botteghe di Fes, gli
specchi e i piatti in rame, i portagioie abbelliti da intarsi
geometrici, le vecchie lanterne di Rabat e i tappeti delle regioni
dell’Atlante impreziositi da disegni di piante, erbe, colori dei
paesaggi di provenienza, e simboli come l’occhio del profeta, la mano
di Fatima, la kasba, le dune. Figure di donne compongono la trama
aiutandosi con un legno d’olivo. Una volta, era tradizione che prima
del matrimonio le ragazze regalassero al futuro marito il kilim creato
con le loro mani, era una lettera d’amore alla quale il corteggiato
doveva rispondere senza poter vedere la ragazza. Sotto la tenda berbera
Hasan prepara il tè alla menta, un rito antico che in attimo conduce la
fantasia a ripercorrere le piste delle carovane nel deserto e a
immaginare notti a tu per tu con le stelle. Anche in casa del professor
Antonio Calò il tè è un rito, si prende intorno alle cinque del
pomeriggio circondati dai libri della biblioteca: migliaia di libri
hanno sostituito le pareti, per la maggior parte scritti e saggi
filosofici e storici. Tra i dorsi La questione della colpa di Jaspers,
con parole che potrebbero stare all’inizio di qualsiasi incontro fra
culture diverse: “Cogliere quanto c’è di comune tra
la nostra tesi e quella di chi ci contraddice, importa più che fissare
affrettatamente punti di vista esclusivi con i quali si conclude come
inutile la conversazione. È così facile difendere appassionatamente dei
giudizi decisi; difficile è invece riflettere serenamente. È facile
interrompere la comunicazione con asserzioni arroganti; difficile è
invece penetrare al fondo della verità instancabilmente, al di là di
ogni asserzione. È facile farsi un’opinione qualsiasi e irrigidirsi in
essa, per risparmiarsi la fatica di rifletterci ancora; difficile è
invece avanzare passo passo, e non rifiutarsi mai di investiga- re
ancora. Dobbiamo ristabilire la disponibilità alla riflessione.
A
questo scopo non dobbiamo inebriarci con sentimenti di superbia, di
disperazione, di ribellione, di ostinazione, di vendetta o di
disprezzo. È invece necessario che questi sentimenti vengano
accantonati, perché si possa guardare alla realtà. Ma, a proposito di
questo discutere insieme, vale anche il contrario: è facile pensare
senza mai compromettersi e impegnarsi; ma è difficile prendere la
decisione vera, quando il nostro pensiero è aperto a tutte le
possibilità e se ne rende conto chiaramente. È facile evitare ogni
responsabilità a furia di bei discorsi; è difficile mantenere la
propria decisione ma senza testardaggine. È facile arrendersi alla
minima resistenza, secondo la situazione; è difficile, una volta presa
una decisione incondizionata, tenere il cammino prescelto nonostante la
volubilità e l’elasticità del pensiero. Quando noi riusciamo veramente
a parlarci l’uno con l’altro ci muoviamo appunto nel dominio delle
origini. A tal fine deve rimanere in noi sempre qualche cosa che ci
faccia avere fiducia negli altri e ci faccia meritare la fiducia degli
altri. Allora soltanto si rende possibile, nel dialogo,
quella quiete nella quale si ascolta e si sente in comune quello che è
vero. Per tutto questo vogliamo evitare di irritarci gli uni contro gli
altri. Cerchiamo invece di trovare insieme la via. La passione
testimonia a sfavore della verità di chi parla. Non vogliamo
percuoterci pateticamente il petto in segno di innocenza, per poter
offendere gli altri. Ma non debbono sussistere limitazioni, che
derivino da una riguardosa riservatezza. Né bisogna tacere per mitezza
d’animo o illudere per consolare. Non c’è alcuna domanda che non debba
essere posta, alcuna cara vecchia ovvietà, alcun sentimento, alcuna
menzogna vitale che dobbiamo salvaguardare. Ma a maggior ragione poi
non ci si deve permettere di colpirci sfrontatamente sul viso con
giudizi provocatori, privi di fondamento e fomulati alla leggera. Noi
apparteniamo gli uni agli altri; dobbiamo sentire la nostra situazione
comune, quando discutiamo insieme. In un parlare di tal genere nessuno
è giudice dell’altro. Ciascuno è nello stesso tempo accusato e
giudice.” “La disposizione mentale a considerare gli uomini col-
lettivamente, a caratterizzarli e giudicarli in blocco, è oltremodo
diffusa. Caratteristiche di tal genere – ad esempio dei tedeschi, dei
russi, degli inglesi – non riguardano mai concetti di genere sotto i
quali possano venire sussunti i singoli uomini, ma indicano solamente
il tipo, a cui essi più o meno possano corrispondere. Questa confusione
tra una concezione basata sui generi e una basata sulle tipologie è il
segno del pensare in base a delle collettività: i tedeschi, gli
inglesi, i norvegesi, gli ebrei – e così via: i frisi, i bavaresi –
oppure: gli uomini, le donne, i giovani, i vecchi.
Il fatto che grazie
alla concezione tipologica si viene pure a
cogliere qualche cosa di vero, non deve farci credere di aver compreso
in tutto e per tutto ogni singolo individuo, quando lo con- sideriamo
designato da quelle caratteristiche generali. Questa è una forma
mentale che, attraverso i secoli, si trascina come un mezzo per
determinare l’odio reciproco fra i popoli e i gruppi umani. Questa
forma mentale, che dai più viene considerata purtroppo come ovvia e
naturale, i nazionalsocialisti l’hanno applicata nella maniera peggiore
e attraverso la loro propaganda fatta entrare nelle teste quasi a
martellate. Era come se non ci fossero più uomini, ma soltanto appunto
quelle collettività. Non c’è mai un popolo che sia un tutto unico.” “Il
tè non si dovrebbe mai prendere con lo zucchero” raccomanda Antonio
Calò mentre cerca sulla sua affollata scrivania il documento che dà il
via al coinvolgimento delle istituzioni nel Primo Festival
italomarocchino, la lettera del 20 gennaio 2011 al Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano. “Contemporaneamente abbiamo contattato,
e quando è stato possibile incontrato, i sindaci e i presidenti di
provincia delle città coinvolte: Venezia, Padova, Verona, Vicenza,
Treviso Belluno.
Man mano che procedevamo nella costruzione del
festival, sentivamo la necessità di aprire un dialogo nuovo nei metodi
e nei contenuti con le istituzioni, un percorso che portasse ad uno
sguardo diverso. Sentivamo che questa volta la cultura e la storia del
Marocco bussavano alle porte dell’Italia in maniera diversa. E ce ne ha
dato conferma il Presidente della Repubblica che rispondendo attraverso
l’ambasciatore Stefano Stefanini alla mia richiesta ha parlato di
“nuovi italiani”. “Io e Abdallah abbiamo viaggiato molto in treno e in
macchina, se penso alle ore trascorse insieme è una vita; abbiamo avuto
modo di riflettere e di conoscerci. Lungo il cammino abbiamo incontrato
alleati, sostenitori, ma anche scettici, persone che ci guardavano
dall’alto verso il basso, che giudicavano il festival un’iniziativa
fallimentare e a cui dava fastidio che ci presentassimo insieme:
l’italiano e il marocchino. La nostra compresenza ha persuaso i nostri
interlocutori a impegnarsi per un festival nel quale ognuna delle due
comunità si sarebbe presentata con il proprio volto.”
"Chabab al Andalous"
I terrazzi dei condomini sembrano tastiere di
pianoforte grigie e bianche, come le macchine allineate nei parcheggi
intorno all’auditorium Modigliani. È l’auditorium del liceo artistico
di Padova intitolato a Modì, il pittore dei colli lunghi. Il nome evoca
atmosfere parigine e con esse i fermenti di una cultura artistica
aperta all’incontro, alle contaminazioni. Come l’incrocio di questa
sera: sul palco la luce della musica lirica andalusa del gruppo Chebab
Andalouse e il fuoco della lirica italiana, anche se tra il pubblico di
italiani ce ne sono pochi, forse la strada per un incontro tra le due
comunità non è così breve. Parlano d’amore le parole della cantante in
jallaba arancione ricamata d’oro, ma parlano anche del Profeta, il
ritornello Allah, Allah, Allah, è un po’ come Jesus nei gospel
americani, trascina con gioia il pubblico e gli artisti. Il religioso è
sempre presente nella vita dei mussulmani. Mi viene in mente, a
proposito di questa presenza continua, quello che ho scritto nel mio
Diario marocchino: “Fes è uno scrigno che contiene dentro di sé mille
strade e mille sguardi, ma sopra ogni cosa, ogni tè alla menta, ogni
saluto, c’è un signore che non ha un volto ma 99 nomi: Allah, Rafi,
Latif, Nur... Tutto rimanda a dio, qui religione e vita sono una cosa
sola, non c’è spazio per il dialogo socratico né per lo spirito
illuministico, è le bon Dieu che ha già deciso quel puoi e non puoi
fare, quel che accadrà. Le Matin, uno dei quotidiani del Marocco,
dedica ogni giorno un’intera pagina al Ramadan, il mese sacro. In
quella di oggi sono riportati anche gli orari delle preghiere e un
hadith (precetto): “Chi per dimenticanza mangia o beve deve continuare
a digiunare perché è Dio che ha deciso che lui abbia mangiato o
bevuto”. Una delle espressioni usate più frequentemente nei dialoghi è
Insciallah, “se Dio vuole”, ma anche “Dio sia con te”; che Allah sia
presente anche nelle formule di saluto hello, hallo, Holà?
La fede di
questa gente è contagiosa, invita a parteciparvi e nello stesso tempo
non ci appartiene. La medina di Fes è la metafora dello scrigno, di
questa religione segreta non perché siano segreti i testi cui si
ispira, ma perché privato, personale, segreto, impenetrabile, è il
rapporto che ogni musulmano ha con dio, un rapporto che impregna e
guida e spiega ogni gesto della sua vita. Un dio così segreto da essere
irrapresentabile. La medina è una metafora di questo scrigno con le
mille botteghe che contengono spazi che non immagineresti, terrazze che
si aprono su panorami inattesi. Segrete sono le parole in arabo che non
capisci e le mille vite che ti passano accanto e che non conoscerai
mai, i mille poveri che farai finta di non vedere o che fotografi
perché ti sembra che anche loro abbiano un segreto, loro ti raccontano
che si può vivere con niente, tendendo una mano, cosa che tu non
faresti, non la faresti mai una vita da niente, perché ti sfugge il
segreto, anzi no, un po’ lo intuisci, il vero piacere non sta in quanto
puoi avere ma nel godere di quel niente, di quel nulla che non è nulla
ma acquista grandezza nella mancanza, nell’assenza. Come quando
rinunci a mangiare pur avendo fame o a bere pur essendo assetato, prova
a resistere anche solo quattro ore e poi qualsiasi cosa ti sembrerà la
migliore che tu abbia mai mangiato o bevuto. I poveri che tendono la
mano ti raccontano la fiaba di quel niente che può trasformarsi in
fiore profumato, in una focaccia calda, in un tè alla menta, in un
sorriso. Sono cose da niente?”
In scena ora c’è un pianoforte,
un contrabbasso, il controtenore Matteo Gobbo Trioli e la soprano Lieta
Naccari, la musica è diventata un’altra cosa, è diventata
individualista, a tratti gara di bravura fra singoli, sulle note di Un
bacio ancor si capisce che siamo pervasi d’amore, non sempre platonico,
per noi stessi prima che per dio, poi per l’altro da sedurre, poi,
forse alla fine, ci ricordiamo che sopra di noi c’è qualcuno. Ma il
potere della musica è proprio di essere un linguaggio universale, così
la serata scorre come un unicum fra note ed applausi. Ce ne vorrebbero
molte di più di serate come questa.
"Una patria assieme ad
altre patrie"
Le montagne intorno
a Belluno ricordano quelle del Rif: “Il cammino è stato scavato nella
roccia dura. Forse è per questo che si dice che i suoi abitanti hanno
la testa dura e sono cocciuti. (…) Il Rif è qualcosa di più di una
serie di montagne inespugnabili. È un paese raccolto in sé, con la
propria lingua, la propria cultura, le proprie tradizioni e la propria
forza. Non è un popolo che negozia”, scrive Ben Jelloun. La montagna di
per sé ha qualcosa di non negoziabile, di solido, di duro.” È tra
queste montagne che è nato uno dei più grandi scrittori italiani, Dino
Buzzati, autore del capolavoro del Novecento: Il Deserto dei Tartari.
Una metafora appuntita come alcune vette delle Dolomiti, un’attesa
spietata di quello che non arriva, come sa essere a volte la vita.
L’attesa di qualcosa a venire, di qualcosa che darà un senso, è la
stessa in ogni essere umano, a volte giace per anni dimenticata sotto
il guanciale della coscienza, altre volte si fa imperiosa e porta a
gesti disperati come quelli dei tanti migranti che salgono sui barconi
della morte con la speranza di un futuro migliore.
Dino Buzzati forse
avrebbe apprezzato la performance Vento extra – migranti ieri, oggi
domani di Jolanda Martini, svoltasi a villa Buzzati. Sono giovani,
hanno la pelle scura, gli zaini della scuola in spalla e danzano a
torace scoperto al ritmo delle bacchette che picchiano sulle bottiglie
vuote e delle mani che battono a tempo, poi si dividono in due gruppi,
e da una parte qualcuno sposta delle piccole barche di carta legate a
fili sottili. Alcune in questo viaggio da una sponda all’altra si
rovesciano in un deserto d’acqua. Malika Mokkedem nel suo ultimo
romanzo La desiderance, racconta la storia di un amore spezzato da
questo sogno: lui muore nella speranza di attraversare il Mediterraneo,
lei lo apprende da una telefonata della guardia costiera e si mette
alla ricerca dei responsabili. In una sua intervista ha detto: “Durante
i miei primi diciassette anni di vita in Francia ho passato tutte le
estati a navigare. Alla fine degli studi ho persino solcato il
Mediterraneo per sei mesi di fila con il progetto di un viaggio attorno
al mondo in barca a vela. Mollare gli ormeggi, staccarsi dal molo
allontanando la barca con il piede, prendere il mare mi dava una
vertiginosa sensazione di libertà, sommata ad un piacere atavico.
Il
Mediterraneo si offriva a me come un cuore che batte tra le due rive
della mia sensibilità. Ed è a forza di frequentare il mare aperto che
ho trovato il senso della parola infinito: l’infinito è la libertà.”
Chi riesce ad attraversare il Mediterraneo, anche con mezzi diversi dal
barcone, trova comunque paesi che sull’accoglienza e sull’integrazione
hanno notevoli lacune. È quanto emerso nell’altro appuntamento
bellunese del Festival, la tavola rotonda svoltasi al Centro diocesano
sul tema dell’emigrazione e alla quale hanno partecipato Abdellatif
Maazouz, Ministro delegato dell’immigrazione del Marocco, Oscar De
Bona, ex Assessore regionale dei flussi migratori, Daniele Stival,
attuale Assessore regionale dei flussi migratori, Gioachino Bratti,
Presidente dell’associazione Bellunesi nel mondo, il professor Khalid
M. Rhazzali, dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova, il
dottor Moulay Zidane El Amrani, moderatore. Di particolare interesse
gli interventi di Rhazzali e di Kaoutar Badrane, una giovane
avvocatessa italomarocchina intervenuta con grande energia al termine
dell’incontro.
Per Rhazzali: Il festival è un caso di studio
sociologico, è promosso da alcuni amici italiani ed
altri marocchini che rivendicano la loro italianità. La politica ha
bisogno di narrazioni come questa per elaborazioni nuove. Trovo molto
importante che quest’iniziativa sia nata a Nordest con un sovvertimento
dei rapporti centro-periferia. Riconoscere il locale è come uscire da
uno stigma in un Veneto che non ha un vero centro metropolitano ma è un
aggregato di città medie. Distribuire le attività culturali sul
territorio arrivando fino a Belluno, è sicuramente faticoso ma se uno
ci cre- de riesce a conservare una dimensione culturale. Altrettanto
importante è il rapporto tra il gruppo che ha dato vita al festival
italo-marocchino e l’associazione che supporta il festival in Marocco,
è un modo interessante di sviluppare una diplomazia parallela, un nuovo
modo di stare nella globalizzazione, di innescare nuove relazioni su
nuove frontiere, di muoversi in diversi contesti con serietà politica e
istituzionale. Al centro del festival c’è la cultura, intesa non solo
come folclore ma come confronto. Per molto tempo abbiamo confuso la
cultura con l’arte locale, l’abbiamo interpretata in termini
etnicizzati, l’abbiamo cioè sostituita con l’appartenere a qualche
posto. È d’altra parte vero che chi vive una storia di immigrazione
tende a mettere al primo posto l’appartenenza. Viviamo in un’epoca in
cui i flussi migratori sono processi rapidi, globalizzati,
femminilizzati e ad alta differenziazione: 350 provenienze etniche.
Un
patrimonio che l’agenda politica non riesce a valorizzare perché lo
concepisce come caos. Vediamo, a questo punto, le politiche dell’Italia
e del Marocco, entrambi paesi a forte emigrazione: dal punto di vista
storiografico, per rimanere in Europa, ci sono interessanti convivenze
in Germania e in Belgio fra le comunità di emigrati italiani e
marocchini. Entrambi contribuiscono al Pil del loro paese ma entrambi
per motivi economici rinunciano alla loro patria. Una quindicina d’anni
fa in Italia si è pensato ad un dicastero sull’immi- grazione e per il
voto all’estero sono stati costituiti dei comitati; in modo analogo
oggi il Marocco si sta muovendo in questa direzione, perché c’è una
nuova consapevolezza nel valorizzare il capitale sociale all’estero. I
marocchini italiani possono contribuire allo sviluppo della società
marocchina stando qui, pensandosi come identità plurime senza
rinunciare ad una patria ma mettendo questa patria assieme ad altre
patrie. Secondo me l’identità plurima rappresenta un inedito valore
potenziale, senza essere una rinuncia o deviare in conflitto. In base
agli accordi bilaterali e grazie alle compagnie low cost si può
circolare e lavorare con velocità fra Marocco, Italia, Francia, Gran
Bretagna, portando con sé conoscenze e nuovi modi di pensare.
Esperienze che dovrebbero contribuire ad un’accelerazione dei processi
decisionali, perché politica è anche adeguatezza alle culture in un
contesto.
Racconto un piccolo episodio personale. Rientravo in Marocco
con dei colleghi di Fes; all’aeroporto di Bergamo ci hanno divisi per
il controllo con il metal detector: una fila per l’area Schengen,
l’altra per gli extracomunitari. Io che viaggio con un passaporto
tedesco mi sono messo nella fila dell’area Schengen, ma un poliziotto
nonostante questo insisteva a chiedermi di cambiare fila dicendo che
non potevo stare nella fila degli italiani, a quel punto ho tirato
fuori l’altro passaporto, quello italiano. C’è necessità di cambiare
categorie di pensiero, altrimenti come si fa a passare la frontiera?”
“Non siamo di seconda
generazione, siamo italiani”
Prendeva appunti tra il pubblico, capelli lunghi camicia a righe. La
più giovane avvocata marocchina d’Italia, Kaoutar Badrane, ventotto
anni, ha carattere da vendere. Quando interviene al termine
dell’incontro si vede che è proprio arrabbiata perché ha vissuto sulla
propria pelle certe ingiustizie. “Cominciamo dal termine di seconda
generazione che trovo discriminatorio, un po’ come di seconda mano,
cosa vuol dire? Noi siamo italiani a tutti gli effetti, siamo nati e
cresciuti in questo paese, non siamo arrivati qui da chissà dove. Sono
stati i nostri genitori a scegliere, per noi è scontato che questo sia
il nostro paese.
Da piccola abitavo ad Andria, in Puglia, e avevo
imparato il dialetto di quella zona, ma quando ho proseguito le
elementari a Bassano del Grappa, i compagni di classe non mi capivano
non perché parlassi l’arabo ma perché pronunciavo delle frasi pugliesi
incomprensibili. D’altra parte ricordo molto bene le lunghe code
davanti alla Questura sotto la pioggia per rinnovare il permesso di
soggiorno: io, mia madre e i miei fratelli più piccoli. Ho sempre
pensato che mi sarei laureata in giurisprudenza per tutelare i
diritti dei più deboli. Oggi chi nasce in Italia, a differenza degli
altri paesi europei, non è cittadino italiano, la legge 91 del 1992
infatti non ha recepito il principio dello ius soli ribadito dalla
Convenzione di Strasburgo: secondo tale principio chiunque nasca nel
territorio dello stato acquisisce automaticamente la cittadinanza, si
pensi che in Francia questo principio si applica dal 1515. Come si fa a
discriminare i bambini figli di immigrati, che
colpa hanno di essere nati qui? Credo nessuna, eppure se il papà perde
il lavoro sono costretti a tornare in un paese che non appartiene loro.
In base alla legge 91 si può ottenere la cittadinanza solo al
compimento del diciottesimo anno e non è neppure automatico, cioè
compiuti i diciott’anni la persona deve presentare domanda entro un
anno se no perde questo diritto. I giovani studenti devono rinunciare
alle gite all’estero, alle borse di studio, agli Erasmus, ad iscriversi
ai test per entrare nelle facoltà a numero chiuso, se non hanno la
cittadinanza, né ci si può iscrivere ad un ordine professionale o
partecipare alla vita politica.
Pochi lo sanno ma una delle ragioni per
cui gli immigrati non si iscrivono all’università è che ogni anno
devono rinnovare il permesso di studio, allora cercano di farsi
assumere perché il permesso di lavoro dura quattro anni. Io ho speso
seimila euro per ricorrere contro il diniego alla mia richiesta di
cittadinanza che mi era stata negata perché non titolare di un reddito
sufficiente a mantenermi. Ma come proprio a me che ho sempre
collaborato come interprete nei tribunali e per i carabinieri? Dopo due
anni e mezzo il Tar mi ha dato ragione. Alla triennale mi sono laureata
in Scienze giuridiche europee e transnazionali a Trento, con una tesi
sulla riforma del diritto di famiglia in Marocco. In particolare in
quel periodo, nel 2006, questa riforma era stata appena avviata dal
nostro re Mohammed VI. Fu un cambiamento radicale nel diritto di
famiglia marocchino per quanto riguarda la tutela delle donne e dei
bambini. Si riconobbero le convenzioni internazionali del fanciullo, e
si introdusse il diritto per la donna di separarsi senza dover
dimostrare di aver subito un danno. Si permise inoltre di introdurre
nell’atto di matrimonio la clausola di monogamia,
mentre una volta un uomo poteva sposarsi con più donne al di fuori di
ogni controllo. La riforma fu portata avanti anche grazie al continuo
scambio con i 600.000 marocchini che vivono in giro per il mondo e che
introducono idee occidentali fondate sulla libertà, sulla giustizia,
sull’uguaglianza dei sessi.”
"Neokaravan"
Le immagini a volte sono un po’
sfocate, ma la scritta bianca su tabellone verde si legge molto bene
Capaci. Gli studenti di Neokaravan nel loro viaggio verso il Marocco
hanno fatto tappa anche a Palermo e hanno ricordato uno degli episodi
più inquietanti della storia italiani. Sabato 14 aprile 2012 sei
studenti del Master Mim dell’Università Ca’ Foscari di Venezia sono
partiti per il Marocco accompagnati da professori universitari,
rappresentanti del festival, e dalla più importante e influente
associazione per lo sviluppo sostenibile del Marocco Ribat al Fath, che
ha coordinato e gestito appuntamenti di approfondi- mento degli aspetti
socio-culturali e antropologici nelle città di Casablanca, Rabat,
Tangeri, Fès, Meknes, Volubilis, Safi, Essaouira, Marrakech, Tantan e
Lâayoune. A maggio la Carovana è ripartita da Palermo con l’aggiunta di
sei studenti marocchini dell’Università “Mohamed V” di Rabat. Le tappe
italiane sono state: Messina, Cosenza, Napoli, Roma, Firenze, Genova,
Torino, Milano, Bologna e infine Venezia. Nelle piazze delle città
visitate si sono svolti dibattiti con le istituzioni locali, con le
organizzazioni, gli enti e le associazioni di volontariato. Attraverso
l’incontro con le comunità di marocchini residenti si è approfondita la
dimensione del migrante e il suo rapporto con la società ospitante.
Tra
i principali promotori di Neokaravan Giovanni De Luca direttore della
sede Rai di Venezia: “Abbiamo iniziato a parlare di questa avventura
fra un tè alla menta e un bicchiere di rosso, e non è un caso. I
contenuti culturali sono più importanti di quelli economici, sono i
primi a modellare i secondi. E noi in questo momento dobbiamo essere
capaci di ripensare il modello culturale:
confrontarci con la nostra storia e con quella degli altri per
interpretare il mondo. Neokaravan e il festival ci ricordano che una
gran parte della nostra cultura viene dalle civiltà persiana e araba,
mentre i soldì quelli sì li abbiamo inventati noi, le prime lettere di
credito risalgono ai tempi delle crociate. Ma l’Europa senza l’altra
sponda del Mediterraneo non esisterebbe. Come il Veneto è legato per
sempre a Canada, Australia, Sudamerica, lì esistono ancora comunità di
emigranti che parlano dialetti scomparsi. La Rai come servizio pubblico
in questo scenario ha un compito preciso. Come negli anni del boom
trasmise un linguaggio comune a tutto il paese, oggi il suo impegno è
quello di diffondere la consapevolezza che la geometria, l’algebra, la
poesia e molto del nostro sapere proviene dall’altra sponda del
Mediterraneo. Il documentario Neokaravan che racconta questo
straordinario viaggio fra Italia e Marocco, per la regia di Piergiorgio
Casagrande, è stato prodotto per Rai Scuola e andrà in onda anche su
Rai Tre. È un film che ci fa capire che la nostra è una storia
condivisa.”
"Il Marocco per le imprese"
A Palazzo Giacomelli, sede di Unindustria
Treviso, non si entrava più il quindici giugno: tantissimi gli
imprenditori che hanno partecipato all’incontro con personalità ed
esperti per illustrare le opportunità offerte alle aziende italiane
dall’economia marocchina. Spiega Mario Vizzotto, responsabile
Unindustria per l’internazionalizzazione: “Per noi il Marocco è da
sempre un punto di riferimento. Già nel 2006 la direzione di
Confindustria scelse la sede trevigiana come la territoriale delegata
ai rapporti con il Marocco. Un riconoscimento che ci siamo meritati
perché abbiamo sempre considerato il Marocco come uno dei paesi
potenzialmente più interessanti. Da un paio d’anni stiamo inoltre
portando avanti un progetto che abbiamo chiamato “Africa futuro”.
Pensiamo che sia il continente che possa offrire maggiori opportunità
di business nel medio lungo periodo alle nostre imprese che si trovano
in forte difficoltà. Sono stati già avviati contatti e progetti nella
fascia subsahariana che però presenta una certa complessità sociale e
politica. Il Marocco resta il paese più stabile e che può dare più
tranquillità, come abbiamo sperimentato in questi ultimi anni insieme
alle molte aziende che hanno chiesto la nostra consulenza per creare
nuove attività lungo l’altra sponda del Mediterraneo.
L’agenzia
marocchina per gli investimenti, con cui siamo in ottimi rapporti, ha
aperto di recente un ufficio a Roma, a conferma di un trend in
crescita. Solo un esempio, a Tangeri, a 14 chilometri dall’Europa, si
sono create infrastrutture portuali strategiche per un mercato globale.
I settori vincenti sono edilizia, logistica, ambiente, turismo. E,
fattore da non trascurare, la gente è amichevole e disponibile a
proporre soluzioni che da altre parti sono più difficili da
realizzare”.
"Una storia che bussa
in modo diverso"
Antonio Calò si
muove tra le tende del Bastione Santo Spirito a Verona come se fosse a
Marrakesh. Insieme prendiamo un tè e inizia a raccontare questa
straordinaria avventura. “Tra le tante cose su cui ci soffermavamo
c’era lo stupore di molti dei nostri interlocutori, era come se la
richiesta implicita di guardare ai marocchini in modo diverso, non come
forza lavoro, o come fonte di problemi, ma come cultura li spiazzasse.
Era la storia di un popolo che bussava in modo diverso, per chiedere
qualcos’altro. Che poi questa richiesta venisse da un professore
italiano e da un immigrato marocchino era scomodo sia per gli italiani
che per i marocchini. Man mano che parlavamo con le istituzioni di
questo evento organizzato insieme ai nuovi italiani, come li chiama
Napolitano, i nostri partner si rendevano conto che non sarebbe stata
la solita festicciola, ma che assumeva una connotazione importante con
la partecipazione della Rai, dell’Università, degli enti pubblici.
Abbiamo viaggiato molto insieme io e Abdallah, una persona verso la
quale ho una stima profonda. Nella sua storia personale ha raggiunto
dei ruoli importanti, se volesse fondare un partito sono sicuro che
sarebbe eletto; è una persona di grande orgoglio con una vita non
facile alle spalle, ma sbarcare il lunario nei primi anni qui in Italia
ha rafforzato la sua qualità innata di leader e mediatore, di uomo che
ogni giorno dedica moltissimo del suo tempo ai problemi degli
immigrati. Ci sono situazioni complicate legate a suoi connazionali che
si sono risolte grazie al suo intervento. Mi ha sempre colpito la sua
capacità di relazione.
A un certo punto della sua vita ha avviato un
ristorante, che è poi diventato un circolo culturale, quest’idea del
dialogo dell’incontro è sempre stata in lui, mettere le persone intorno
ad un tavolo per dialogare, è un catalizzatore straordinario. Anche la
sua scelta di vivere nel centro della cooperativa Solidarietà, un luogo
straordinario in cui sono a contatto anziani, disabili, ragazze madri,
extracomunitari, va in questa direzione. Le prime volte che abbiamo
parlato del festival le idee erano abbastanza vaghe, poi si sono
definite identificando luoghi e persone. Proprio i tavoli del circolo
Hilal sono stati testimoni di tanti incontri, anche con persone che la
pensavano diversamente da noi. C’è però stato un momento decisivo, un
momento in cui ho capito che mi sarei dedicato anima e corpo a questa
iniziativa. È quando Abdallah mi ha presentato il dottor Bennani,
Consigliere del Re e presidente della più importante associazione
marocchina, Ribat al Fath, che ha garantito il suo pieno appoggio
all’iniziativa. Con il dottor Bennani abbiamo incontrato varie figure
istituzionali, dal Questore al Sindaco di Treviso, ed entrambi abbiamo
assistito alla qualità dei riconoscimenti che le autorità dedicavano ad
Abdallah. Il primo passaggio tecnico sul versante italiano è stato
quello di informare il Presidente della Repubblica, i sei sindaci delle
città principali, i cinque presidenti della Provincia, la Giunta
regionale. Nei mesi dedicati alla preparazione dell’evento abbiamo
avuto contatti anche con Amato e con Cacciari.
Tornando a Bennani,
sembra un ambasciatore, è una persona di poche parole, grande
osservatore e grande ascoltatore. Tra le esperienze più belle che io
abbia mai vissuto ci sono sicuramente i tre
giorni in cui è stato nostro ospite qui in Italia. Sono stati tre
giorni da sogno. A Venezia abbiamo incontrato Orsoni che ci ha promesso
piazza San Marco, i funzionari della Regione e il Presidente del
consiglio regionale Ruffato; poi il ricevimento e visita alla sede Rai
di Venezia insieme al direttore Giovanni De Luca. Il terzo giorno a
Susegana, presso l’azienda Collalto, Bennani è rimasto colpito dalla
tecnologia con cui è stata realizzata la stalla delle bufale. Grazie
alla com- bustione dello sterco delle mucche si realizza una totale
autosufficienza energetica, un sistema ecosostenibile in grado di
soddisfare i bisogni energetici di ottocento persone. Immaginare la
rivoluzione che questo sistema potrebbe portare agli sperduti villaggi
del Marocco, è stato il primo pensiero del nostro ospite. La visita si
è poi conclusa al castello dei Collalto dove ad accoglierlo c’era la
principessa che parla un perfetto francese perché è ta a Tangeri. A
quel punto Bennani si è sentito a casa e anche noi abbiamo provato
un’emozione profonda nel vedere realizzato davanti a noi lo spirito del
festival. Stanco ma felicissimo quella sera l’ho riaccompagnato in
hotel e al momento di salutarci ci siamo abbracciati.”
“Lavoriamo alla
seconda edizione”
Arriva anche Abdallah, parla in arabo, alle volte in
francese al cellulare e prende posto accanto a noi, è felice: “Con
grande impegno, con gli amici, un po’ alla volta, siamo riusciti a
realizzare il 70 per cento di quello che avevamo progettato. L’idea
della carovana è stata una bella idea ma i finanziamenti erano
insufficienti e per quanto riguarda la logistica abbiamo dovuto
arrangiarci. Un primo gruppo di studenti italiani ha attraversato il
Marocco, un secondo gruppo di studenti marocchini è partito da Palermo
e ha raggiunto Torino. Per rendere possibile l’impresa ci siamo in
parte autofinanziati dimostrando che se si crede davvero in una cosa la
si realizza. Dal punto di vista economico siamo riusciti a organizzare
il festival in un mese e mezzo grazie a sponsor come Came e Unicredit
che ci hanno dato fiducia.
Mario Anton Orefice
- www.studiodiscrittura.it
Progetto grafico: Marcello Dal Cin
Questa manifestazione
è stata anche una grande provocazione per le associazioni marocchine
con sede nei capoluoghi del Veneto. Ad ognuna di loro avevamo chiesto
una mano un anno fa ma nessuno si è fatto avanti. Quando hanno visto
che la manifestazione si sarebbe fatta hanno cominciato a chiederci
perché erano state escluse. Non erano state escluse, semplicemente non
credevano che ce l’avremmo fatta. Abbiamo coinvolto grandi artisti come
Shumisha che è una star in Marocco e che è venuta per un rimborso spese
grazie all’amico Fabrizio Nonis che vive a Marrakesh. Dobbiamo riuscire
a saldare meglio l’aspetto economico e quello culturale, intensificando
i rapporti tra i due paesi, La settimana scorsa abbiamo ospitato a
Treviso il ministro marocchino dell’economia e delle finanze che si è
reso disponibile a creare legami economici il Veneto. Inoltre si è
aperta in rete una fiera virtuale per presentare i prodotti veneti al
Marocco e all’Africa: Venice for Africa. Il nostro festival non è solo
folclore, va oltre e, malgrado le difficoltà, siamo già al lavoro per
la seconda edizione. Treviso, dicembre 2012