Nella
storia del Marocco contemporaneo,
l'autoritarismo di regime si può considerare una costante, antica e
moderna, ma con sfumature diverse, in rapporto alla personalità dei
Regnanti e alla collocazione temporale della loro azione politica di
guida della nazione.
In linea con le contaminazioni
internazionali del pensiero politico, aperto a principi sempre più
rispettosi della dignità umana, attraverso la conquista dei diritti
fondamentali della persona e della cooperazione socio-politica, si è
registrato, nel tempo, un andamento irregolare dell'uso
dell'autoritarismo monarchico, talvolta eccessivo (ai tempi dei re
Mohammed V (1927-1953; 1957- 1961) e del successore Hassan II
(1961-1999),
talvolta più moderato, ai tempi attuali di Mohammed VI (1999-
...)
L'autoritarismo contiene in sè
l'accezione della
negatività, se considerato in senso assoluto. E certamente, per chi
ne è soggetto, tale appare.
Tutt'altro aspetto esso, però,
assume nell'ambito dell'azione che svolge il leader di un regime,
responsabile della salvezza nazionale o di una visione strategica di
sviluppo e di affermazione della società. In tempi lontani, si
definiva "ragion di Stato".
Riferimenti storici
negativi
Hassan II :
Hassan
instaurò in breve tempo un regime severo,
colpendo con violenza il movimento nazionalista e ogni tipo di
opposizione alla monarchia. Il sistema repressivo, affidato ai
servizi segreti, si indurì ulteriormente nel 1971-1972, quando
Hassan II venne fatto segno da due tentativi di colpo di stato e da
un un attentato. Nel 1973, sessanta persone ritenute responsabili dei
due tentativi di colpo di stato vennero prelevate da una prigione
della capitale e relegate in condizioni inumane nelle celle
sotterranee di una caserma dell’Alto Atlante, la famigerata
Tazmamart. Nonostante la dura repressione, Hassan II riuscì a
conquistarsi un vasto consenso sfruttando la causa nazionalista del
Sahara Occidentale, che trovava d’accordo tutte le forze politiche
del paese.
Il
periodo di rigido sistema dittatoriale, che va
dagli anni '60 fino ai primi anni '90, è stato definito dalle forze
di opposizione "anni di piombo". Durante questo periodo
venne esercitata una ferrea repressione politica, e centinaia di
dissidenti furono uccisi, arrestati, esiliati o fatti "".
Dietro suo ordine, il 29 ottobre 1965 venne eseguito, a Parigi, in
pieno giorno, il sequestro del leader democratico marocchino Mehdi
Ben Barka del quale non fu poi più trovata traccia. Nel novembre
1975, la « Marcia Verde » organizzata verso i
territori
dell'antica colonia spagnola del Sahara Occidentale gli dette
l'occasione di ricostruire l'unità intorno alla sua persona, nel
tentativo di instaurare una specie di culto della personalità. Il
suo ritratto venne affisso in ogni luogo pubblico di ogni città e
villaggio, con la polizia pronta ad intervenire in caso di mancata
affissione. Ma sarà solo verso la fine degli anni '80 che il suo
regime comincerà lentamente a cedere. Le riforme costituzionali del
e del attenueranno la fisionomia assolutista della monarchia. Nel
febbraio 1998, infine, Ḥassan II nominerà un membro
dell'opposizione, il socialista Abderrahman El Yousoufi, come , in
nome dell'alternanza, ma si può dire che gli "anni di piombo"
ebbero termine definitivamente solo con l'ascesa al trono del figlio
, nel . [... da Wikepedia]
La
situazione politica interna e la crisi economica
agli inizi degli anni Ottanta provocò un forte malcontento che si
espresse con una serie di manifestazioni e rivolte antigovernative,
alle quali la monarchia rispose con la consueta violenza. Fatto segno
dalle critiche internazionali, Hassan II tentò di riallacciare il
dialogo con le opposizioni, che ne respinsero tuttavia le proposte,
ritenendole insoddisfacenti.
Nella
seconda metà degli anni Ottanta Hassan II si
ritrovò in forti difficoltà; egli infatti aveva da una parte
bisogno di ricostruirsi una migliore immagine internazionale,
dall’altra di rafforzare la monarchia in vista di nuovo pericolo
che si andava profilando con la comparsa dei movimenti
fondamentalisti islamici. Il re alawita, come diretto discendente del
profeta Maometto e “capo dei credenti”, godeva di un grande
prestigio presso la comunità islamica marocchina; questo però non
lo sottraeva alle critiche delle reti fondamentaliste islamiche da
poco attive in Marocco.
Stretto
tra più fronti, per accattivarsi la fedeltà
dei religiosi nel 1988 Hassan II inaugurò un’enorme moschea a
Casablanca, dotata di un minareto alto 172 metri (chiamato “faro
dell’islam”); per migliorare il rapporto con le opposizioni e con
la comunità internazionale nel 1991 concesse la grazia a 2.000
detenuti (tra cui diversi membri del Fronte Polisario) e fece
liberare, dopo 18 anni, i 31 sopravvissuti della fortezza di
Tazmamart, che venne rasa al suolo. Nel 1994 una nuova grazia venne
concessa a uno dei principali membri dell’opposizione socialista
marocchina, Mohamed Basri, che l’anno seguente poté rientrare in
Marocco dopo un lungo esilio. Questa apertura, seppure ritenuta
ancora insufficiente dalle opposizioni, valse al Marocco l’avvio di
negoziati con l’Unione Europea e con la firma di importanti accordi
commerciali nel 1995.
Mohammed VI:
“LA
DEPENALIZZAZIONE DEI DELITTI D'
INFORMAZIONE”. PAROLE AL VENTO...
Mentre
i venti della “Primavera Araba”
inauguravano un’altra era, nei rapporti tra la stampa libera e il
potere, le cose non hanno fatto che peggiorare. Giornalismo fa rima
sempre con prigione, come nel caso del celebre editorialista
arabofono Rachid Niny che ha trascorso un anno in prigione, da aprile
2011 ad aprile 2012, per una delle sue cronache. Era stato condannato
per disinformazione!
Il 17 settembre scorso Ali Anouzla,
fondatore del sito Lakome, è stato arrestato per aver pubblicato sul
sito un link che rinviava a un video di Al Qaeda sul Maghreb islamico
(Aqmi) con un appello al jihad contro il Marocco e il suo re. E’
stato accusato di “aiuto materiale, apologia e incitamento al
terrorismo”. Ciò gli può costare fino a 20 anni di prigione. RSF,
Amnesty International e, ancora, Osservatorio dei Diritti Umani non
sono i soli a inquietarsi per la sorte dei giornalisti indipendenti o
dissidenti del Regno. In merito ad Anouzla, il Dipartimento di Stato
americano ha chiesto di trattare questo affare in modo “giusto e
trasparente”. E aggiungendo: “La decisione del Governo marocchino
d’incolpare Anouzla ci preoccupa. Noi sosteniamo le libertà di
espressione e di informazione e, come affermiamo da sempre, i diritti
universali costituiscono una parte indispensabile di tutta la
società”.
Per
molto tempo, l’arma del potere per mettere
la museruola alla stampa aveva un nome: l’articolo 77 del Codice
dell’informazione. Un articolo che permetteva al Primo Ministro di
vietare una pubblicazione con una semplice decisione amministrativa.
E’ così che Le Journal, Assahifa e Demain sono stati vietati nel
dicembre 2000, per decisione del Primo Ministro dell’epoca, il
socialista Abderrahmane El Youssoufi, per aver “attentato alla
stabilità del Paese”.
Questi tre settimanali avevano
semplicemente pubblicato una lettera, attribuita al vecchio
avversario Mohamed Basri, che accusava la sinistra marocchina di
essere coinvolta nel tentativo di colpo di stato del 1972 contro il
re Hassan II, chiamando in causa direttamente il Primo Ministro El
Youssoufi. A partire dal 2003, questa legge è stata abolita. E’
stata tuttavia sostituita con altri metodi di censura più
pericolosi. I processi e il boicottaggio, da parte di grandi gruppi
economici, degli organi di stampa più indipendenti hanno finito col
provocare il fallimento di alcuni e di mettere in riga altri…
“I
pretesti variano (Sahara, Islam, monarchia, stabilità, sicurezza,
ecc.), ma l’obiettivo non cambia mai: far tacere, attraverso la
dissuasione poliziesca e giuridica, le voci più credibili e più
ascoltate che si autorizzano da sole senza sottomettersi ai diktat
del consenso voluto nelle alte sfere”, scriveva il drammaturgo
Driss Ksikes, all’indomani dell’arresto del giornalista Ali
Anouzla. “Indagare sugli affari fiorenti dei cortigiani? Troppo
rischioso. Far scoprire le voci alternative sul Sahara? Temerario.
Mettere a nudo i discorsi degli islamisti radicali? Pericoloso.
Far
parlare i parenti del sultano? Irrispettoso.
Sondare il parere dei governati sul re che li governa? Sacrilegio”,
spiega Ksikes, che è stato capo redattore di Tel Quel e pure
direttore della pubblicazione del settimanale arabofono Nichane.
Anche lui ha avuto a che fare con la giustizia per un dossier
dedicato alla satira.
Processo a Ksikes Abdellatif Laabi,
scrittore, poeta e saggista marocchino condivideva la stessa opinione
quando dichiarava al sito JOL Press del 22 ottobre scorso che “da
qualche anno si assiste a un vero accerchiamento dei media. Le voci
dissonanti, per non parlare dell’opposizione frontale, non hanno
più voce in capitolo nei media pubblici”.
Internet e citizen journalism
Oggi
il dissenso è altrove. E’ su Internet.
L’esempio più clamoroso dell’influenza grandissima di Internet è
l’apporto di un sito, Lakome, così come di Facebook e Twitter in
quello che è comunemente chiamato “l’affaire Daniel”
(Danielgate). Tutto è iniziato con una grazia del Re, accordata per
errore a fine luglio, a Daniel Galvan, un pedofilo spagnolo. L’uomo
era stato condannato nel 2011 a 30 anni di prigione in Marocco, per
aver commesso violenza sessuale su 11 bambini dai 3 a 15 anni. Il
sito Lakone ha seguito il caso, cui gli hanno fatto eco messaggi su
Facebook e Twitter. Risultato: migliaia di marocchini sono scesi in
piazza a protestare contro questa grazia concessa dal Monarca.
Manifestazioni represse molto duramente.
Mohammed VI ritorna
sui suoi passi e procede, il 4 agosto, al ritiro della grazia
precedentemente accordata a Daniel Galvan. Non era mai successo!
All’indomani di questo fatto, il direttore dell’amministrazione
penitenziaria, ritenuto responsabile di questo caso, viene
licenziato. Il 6 agosto il Re riceve le famiglie delle vittime del
pedofilo in segno di solidarietà.
Senza il lavoro del sito
Lakome e dei social network, questo caso non sarebbe mai emerso.
Una
prova in più che Internet ha sostituito la stampa classica per
veicolare le informazioni indipendenti, persino imbarazzanti, per il
potere in carica. Sempre più i cittadini praticano il citizen
journalism mettendo sul web, su Facebook, Twitter o Youtube, delle
foto o dei video compromettenti per gli eletti locali, poliziotti,
gendarmi… La resistenza continua!
Quanto alla stampa on
line, è ancora in attesa di un inquadramento giuridico ipotetico per
promuovere questo settore. Il ministero della Comunicazione sta per
elaborare un progetto di legge in merito. Proporrà una regolazione
come quella dei Paesi occidentali? O si tratterrà di una legge che
darà il colpo fatale all’ultimo bastione della stampa indipendente
del Paese? Sarà il futuro a dirlo…
Il
rapporto dei marocchini con i media
I
marocchini che rapporto hanno con i media?
Rispetto alla televisione, i dati dell’audience confermano la
popolarità dei canali transnazionali arabi, come Al Jazeera o Al
Arabiya, soprattutto dopo la Primavera Araba. L’élite francofona
segue le televisioni francesi. Le televisioni nazionali marocchine
sono apprezzate per le telenovela, soprattutto turche, come pure per
le partite di calcio dei club marocchini e gli incontri per la
selezione della nazionale.
Quanto alla radio, è il canale
Mohammed VI a dominare su tutte le emittenti pubbliche e private: è
interamente dedicato al Corano e all’Islam.
Da uno studio
realizzato all’inizio del 2011 nell’ambito del “Dialogo
nazionale-media-società”, è emerso che “i media marocchini
soddisfano solo parzialmente i bisogni dei giovani”. Lo studio,
effettuato su un campione di centinaia di giovani tra i 15 e i 29
anni, rivela che tre quarti di quelli interrogati non acquistano né
riviste né quotidiani marocchini. Lo studio evidenzia che è
Internet il mezzo più usato come fonte d’informazione, poiché,
tra i media, è “quello che ispira più fiducia”. Internet e
anche citizen journalism. I dati attestano la popolarità dei media
sociali.
Facebook, per esempio, contava nel
2012 circa 4,7
milioni di contatti marocchini, di cui il 43 per cento nella fascia
18-24 anni.
E’ dal social network che prendono il
via i
principali movimenti di protesta prima di materializzarsi nella
realtà. A cominciare dal movimento “20 febbraio” che si è
formato sui social network o ancora “Freekiss”, un’operazione
iniziata da gruppi di internauti su Facebook, per protestare contro
l’arresto di due adolescenti, un ragazzo e una ragazza, entrambi di
15 anni, citati per “attentato al pudore”, a Nador, nel nord del
Paese, accusati per aver messo su web una foto che li mostrava mentre
si abbracciavano. Un appello di adesione alla manifestazione
organizzata in loro favore è stato lanciato su Facebook e seguito da
un’iniziativa di “Freekiss” (bacio libero), organizzato a Rabat
in segno di solidarietà.
testo di Hicham Houdaïfa –
Rabat
Traduzione
di Stefanella Campana
dicembre 2013
MAROCCO E
SACRALITA' REALE IN UNA
CARICATURA "IRRIVERENTE"
Mentre
la
"primavera araba" continua ad infiammare l'area
mediorientale, dalla Siria al Bahrein passando per l'Egitto, nel
regno alawita - ad un anno dall'inizio della contestazione -
condividere su facebook una caricatura irriverente del sovrano
Mohammed VI è ancora considerato un crimine di lesa maestà. E'
quanto ci insegna la vicenda di Walid Bahomane, diciottenne
originario della città di Salé, condannato ad un anno di carcere e
mille euro di multa per "attacco ai valori sacri della nazione".
La
riforma
della Costituzione approvata
nel
luglio del 2011 sull'onda delle manifestazioni pro-democratiche
promosse nel paese dal movimento
20 febbraioha eliminato dal testo il
vecchio articolo 23 che sanciva la sacralità della figura del
monarca.
Un
retaggio del sistema di legittimazione arcaica e
tradizionale - come il baciamano e il giuramento di fedeltà rituale
imposto alle alte cariche - di cui la dinastia alawita si è servita
nei decenni post-indipendenza per consolidare il suo potere sul nuovo
Stato in costruzione.
Tuttavia, la promessa di una nuova
gouvernance
"moderna e democratica" che ha accompagnato la modifica
della carta fondamentale (la sesta dal 1962) - rifiutata dai
dissidenti e dalle organizzazioni a sostegno del movimento - sembra
essere rimasta lettera morta.
Dopo
il caso
L'haqed e
la repressione
di Taza, nuovi
episodi confermano
l'atteggiamento "intimidatorio" assunto negli ultimi mesi
dalle autorità per frenare lo slancio di una generazione che sta
cercando di liberarsi dal giogo della paura e della sottomissione.
E a tornare di attualità è proprio il
dibattito sulla "ex" sacralità del sovrano, un attributo
scomparso dalla costituzione ma ancora presente, seppur con diversa
formulazione, nel codice penale (e della stampa).
Giovedì
16 febbraio, dopo un processo sbrigativo e
di dubbia regolarità, il giovane Walid Bahomane è stato giudicato
colpevole di "attacco ai valori sacri della nazione" -
ossia al monarca - per aver condiviso su facebook alcune immagini
satiriche di Mohammed VI, tra cui una caricatura pubblicata dal sito
di Le monde (in foto).
Un anno di carcere e 10 mila dirham (circa
mille euro) di multa è il prezzo con cui pagherà la sua
irriverenza.
Pochi
giorni prima il ventiquattrenne Abdsesamad
Haydour è stato condannato a tre anni di reclusione dal tribunale di
Taza per aver proferito "propositi diffamatori all'indirizzo di
un simbolo dello Stato".
Abdessamad
era stato filmato nel corso di una
manifestazione mentre pronunciava una dura invettiva nei confronti
del sovrano. All'arresto immediato era seguita un'udienza speditiva
in cui l'imputato non ha nemmeno avuto il diritto all'assistenza di
un avvocato d'ufficio, come riportato da un comunicato di denuncia
dell'AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani).
Alcuni militanti del "20 febbraio"
hanno subito avviato una campagna di protesta e di sensibilizzazione
sotto lo slogan "Mohammed VI, ma liberté est plus sacrée que
toi".
L'accanimento
del regime contro i "profanatori"
della monarchia non è una novità nel paese, e forse è questa la
constatazione più grave per gli attivisti marocchini.
Dopo
i casi L'haqed, Bahomane e Haydour, nulla
infatti sembra essere cambiato da quando il giovane ingegnere Fouad
Mourtada è stato condannato (2008) a tre anni di prigione per aver
"piratato" l'identità del principe Moulay Rachid su
facebook, o quando il caricaturista Khalid
Gueddar è stato
bandito dalla stampa
nazionale (2009) per aver disegnato alcune vignette "derisorie"
del monarca (Le courrier international, Bakchich.info) e del principe
Moulay Ismail (Akhbar al-Youm)..
Costituzione o meno, dunque, la "primavera
marocchina" non sembra ancora riuscita ad intaccare la sacralità
della famiglia reale, né tantomeno il suo potere in campo politico
ed economico.
Di
certo però le voci critiche che mettono
apertamente in discussione Mohammed VI, "rappresentante supremo
della nazione" e "re dei poveri" con il più alto
stipendio annuo tra le monarchie del pianeta (254 milioni di euro
versati dalle casse statali) e un patrimonio personale che supera
quello dell'emiro del Qatar, si moltiplicano con il passare del
tempo.
Per
il movimento 20 febbraio - che proprio in questi
giorni si appresta a celebrare il suo primo anniversario - la
battaglia per il cambiamento è ancora solo agli inizi.
di Jacopo Granci
da Rabat
http://osservatorioiraq.it
Riferimenti storici
positivi
Le
attenzioni degli stessi Regnanti all'avvìo di
processi di liberalizzazione, che gradualmente hanno portato il
Marocco a conquiste democratiche, da prendere con le dovute riserve
di efficientismo rappresentativo, in parte deliberatamente voluto ed
attuato con strategie di raffinatezza intelligenza politica. Una
strategia che sempre si è mossa in anticipo rispetto all'insorgere e
all'incalzare degli eventi, prevenedo così contrapposizioni
pericolose con le controparti in causa, fossero esse politiche,
sociali o religiose.
E' il caso degli effetti delle
primavere
arabe, di recente affermazione, così prorompenti e radicali per
gli Stati maghrebini viciniori, che hanno raggiunto solo
lievemente il Marocco, non trovandovi terreno fertile, dato che lì
molto tempo prima (...) ci sono state le proprie, svoltesi in
maniera concertata tra le forze sociali e politiche, sotto la guida e
la vigile attenzione dell'autorità monarchica:
Hassan II:
Le
elezioni legislative del novembre 1997 cambiarono
radicalmente il panorama politico marocchino. All’arretramento
dell’Istiqlal corrispose infatti il successo della principale forza
di opposizione, l'Unione socialista delle forze popolari (USFP). Il
risultato elettorale aprì una fase inedita nel paese maghrebino; nel
gennaio del 1998, per la prima volta dopo 40 anni, la guida di un
governo di coalizione (comprendente tutti i maggiori partiti compreso
l’Istiqlal) fu affidata infatti a un membro delle opposizioni: il
leader socialista Abderrahmane Youssoufi, compagno di lotta di Ben
Barka e reduce da un esilio durato quindici anni. Nello stesso anno
il Marocco riavviò le relazioni con l’Algeria.
Mohammed VI:
Il
Re, cinquantenne, succeduto al padre defunto nel
1999, amato dai marocchini sta gestendo bene il suo potere: in questi
anni è stata cambiata la Costituzione nel senso di una progressiva
cessione di competenze dalla monarchia al Parlamento agli enti
locali. Un cammino certo lento, inevitabilmente lento, ma che sta
dando frutti. Il simbolo più evidente è la nomina regia della prima
donna governatrice di regione. Zineb El
Adaoui,
già magistrato, ora governa la Regione di Kenitra dove gestirà per
esempio la sicurezza, rappresenta un esponente di quella che
chiameremmo “società civile”, segno di un miglioramento generale
dell’educazione e dell’istruzione pubblica.
Un’altra
notizia che è rimbalzata sui media
europei, poco su quelli italiani, è il varo di un provvedimento
legislativo volto a “sanare” i casi di immigrazione clandestina
in Marocco. Il Paese infatti attira molti migranti provenienti
dall’Africa subsahariana: alcuni giunti per motivi di studio
cercano di rimanere per migliorare la propria condizione economica;
altri, con l’intenzione di transitare per il Marocco per poi
giungere in Europa, si fermano per vari motivi. Fin qui tutto
normale. Quando però i clandestini sono europei, in
particolare spagnoli, i conti sembrano non ritornare più.
Invece la crisi economica e il sorgere di nuove opportunità nella
sponda sud del Mediterraneo hanno finito per creare un flusso inverso
a quello che si immagina essere prodromo alla presunta invasione di
immigrati. Quindi il Re ha voluto intervenire con una
specie di sanatoria.
I
numeri parlano di circa 15-20 mila spagnoli
irregolari in Marocco: una cifra non tanto alta, ma che qui in Italia
genererebbe subito allarme. Ma più che una questione di ordine
pubblico ciò dimostra il dinamismo dell’economia marocchina, certo
ancora arretrata, ma comunque ricca di stimoli.
L’innovazione parte per lo
più dal centro, su
forte iniziativa della monarchia. Come si sa il Marocco – a
differenza dei Paesi limitrofi – grandi risorse minerarie o di
idrocarburi: per questo si punta alle energie alternative. Ovviamente
il sole non manca e quindi l’energia solare rappresenta la prima
fonte da utilizzare. Così, entro quest’anno, dovrebbe
concretizzarsi un grande progetto che prevede la
realizzazione
della centrale solare di Ouarzazate
(una
città a ridosso del deserto), che occuperà una estensione di 460
ettari, garantirà al Marocco una capacità di 160 MegaWatt, che
dovrebbe coprire il 40% del fabbisogno energetico del Paese.
LA
TANGENZIALE MEDITERRANEA DEL MAROCCO
Inaugurato
dal re Mohammed VI l'ultimo tratto della tangenziale mediterranea
(Jebha-Tétouna) , uno dei grandi progetti infrastrutturali che
collegherà il nord all' est del Marocco e ridurrà di circa 3 ore di
durata il percorso tra Saidia e Tangeri. Secondo il ministro delle
Infrastrutture e dei Trasporti, Aziz Rebbah, il Marocco ha vinto la
scommessa di costruire la tangenziale che si estende per 507 km,
''approvata a maggioranza delle aziende marocchine''. Questa
esperienza acquisita può essere sfruttata nel futuro per la
realizzazione di progetti simili a livello nazionale, regionale o
continentale. Mr. Rebbah aggiunto che questo anello è solo il
preludio di avviare quanto prima altri progetti strutturali
costituiti da diverse centinaia di chilometri di strade rurali da
collegare alla tangenziale. Inoltre, i 120 chilometri di spiagge
isolate sono suscettibili di essere trasformate in spiagge attraenti,
così come per i turisti stranieri marocchini. A questo proposito, il
ministro ha detto che un'offerta sarà lanciata presto per la
creazione di porti turistici nella regione, oltre al lancio di
diversi progetti sportivi, soprattutto nello sport acquatico,
mountain bike e automobilistico. Con questo anello è stato
possibile raggiungere parti remote della regione settentrionale, ha
detto il ministro, sottolineando che la regione è dotata di strade
provinciali e regionali e con le principali autostrade, come il
bypass Mediterraneo, la rende uno spazio capace di attrarre grandi
progetti di investimento. Questo anello, che è costato 7,2 miliardi
dollari di dirham, collega le province di Tangeri, Tetouan,
Chefchaoun, Al Hoceima, Nador e Berkane.
ENERGIA
SOLARE
IN MAROCCO
Il Paese punta alla costruzione di 5 parchi solari
entro il 2020.
Il
Marocco investirà nove miliardi di dollari
per la costruzione di cinque parchi solari sul proprio territorio. Ad
annunciarlo è stato Mohammed Zniber, vice ministro dell’Energia,
che parlando all’agenzia France-Presse si è detto fiducioso circa
la possibilità di reperire i finanziamenti. «Il nostro obiettivo -
ha spiegato a margine di una conferenza sull’energia fotovoltaica a
Marrakech- è di concludere l’operazione entro il 2020, facendo in
modo che il 42% della nostra produzione energetica sia alimentata da
fonti rinnovabili. Di queste, il peso del solare sarà pari al
14%».
Già alla fine della scorsa primavera,
il Marocco ha
lanciato i lavori per la costruzione del primo parco, nella zona di
Ouarzazate, nel Sud del Paese. Sarà terminato nel 2015, e con i suoi
500 megawatt costituirà la più grande installazione termo-solare
del mondo. Uno sforzo giudicato da Paolo Frankl,responsabile della
divisione “energie rinnovabili” in seno all’Agenzia
Internazionale per l’Energia (AIE), «un esempio da seguire»
(da
valori.it - 12 settembre 2012)
IL MOVIMENTO AMAZIGH
In
Marocco il movimento amazigh ha conosciuto in questi ultimi anni un
processo di ringiovanimento e di espansione della sua base sociale.
La sua presenza ha oltrepassato i campus universitari (Meknès,
Agadir, Marrakech, Errachidia) e i circoli della borghesia berbera
urbana, insediatasi nelle grandi città del regno durante le prime
migrazioni interne nel primo decennio del dopo indipendenza, fino ad
arrivare alle regioni povere del “Marocco profondo”. Il movimento
si caratterizza per il vasto numero di associazioni (nazionali,
regionali e locali) che lo compongono, per il suo radicamento
nell’insieme del territorio nazionale e per la sua presenza,
consolidata negli ultimi dieci anni, nel dibattito politico ufficiale
(grazie alla visibilità assunta dagli intellettuali e dagli
accademici che ne fanno parte) su questioni ben definite (la laicità
dello stato, l’autonomia regionale, la revisione della
costituzione, i diritti dell’uomo e l’identità nazionale).
La
“question amazigh”
appare nel dibattito politico ufficiale marocchino, solo nella prima
metà degli anni novanta. Il defunto re Hassan II propone per la
prima volta il 20 agosto 1994 l’insegnamento nelle scuole
elementari dei tre “dialetti marocchini”, intendendo con questa
espressione le tre varianti regionali della lingua amazigh (tarifit,
tamazigh e tachelhit), e lasciando in ogni caso all’arabo il posto
di “lingua madre del paese”. Prima di questa data, il
riconoscimento di una cultura e di una lingua berbera all’interno
del regno alawita era un argomento tabù. Lo Stato marocchino
indipendente ha costruito la propria identità nazionale
sull’omologazione culturale e sulla supposta uniformità
arabo-musulmana del suo popolo. Raggiunta l’indipendenza (1956) la
leadership politica (monarchia e quadri dirigenti del movimento
nazionalista), temendo che l’eterogeneità etnica e linguistica
potesse dividere e destabilizzare i nascenti apparati di potere, ne
assicurò la completa emarginazione, uniformando il panorama
linguistico e culturale (identitario) nazionale.
Tuttavia,
è sempre esistito un diffuso attivismo
berbero sia nelle grandi città del regno (in particolar modo
Casablanca e Rabat) sia nelle regioni montuose dell’interno (Rif,
Medio Atlante e Suss) quasi integralmente berberofone. Il
primo sintomo di tale attivismo risale al 1967, con la creazione
dell’Association marocaine des recherches et d’échanges
culturels (AMREC).
Come afferma la
ricercatrice Laura Feliu, “la creazione di una associazione che
riconoscesse in maniera esplicita la sua adesione alla berberità era
al tempo impensabile, per cui i termini «amazigh» o «berbero» non
furono inseriti nella sua denominazione”. L’AMREC, di stanza a
Rabat ma estesa con sezioni locali a gran parte del territorio
nazionale, è un’organizzazione tuttora esistente composta
essenzialmente da insegnanti e studenti berberi interessati al
recupero della tradizione letteraria orale amazigh. L’attività
dell’associazione, di stampo pressoché accademico, si è
concentrata principalmente sulla “riscrittura della storia
nazionale” e sugli studi linguistici.
Con
il passare degli anni e la nascita di
organizzazioni berbere via via più radicali, molti militanti hanno
abbandonato l’AMREC, che ha assunto una connotazione sempre più
moderata e conciliante rispetto alle posizioni del regime. Tra i
fuoriusciti più noti vi è il letterato Ali Sidqi Azaykou che,
lasciata l’AMREC nel 1975, ha contribuito alla fondazione
dell’Association culturelle amazighe (ACA). Tra i membri
dell’associazione figuravano personalità strettamente legate alla
monarchia (come Mohamed Chafik, direttore del Collège Royal ed
insegnante dell’attuale sovrano Mohammed VI), fatto questo che
assicurava all’ACA, almeno all’inizio, notevoli mezzi di
sostentamento, pur in assenza del riconoscimento ufficiale delle
autorità, e la possibilità di includere il termine «amazigh»
nella sua denominazione senza incorrere in azioni repressive. In
realtà, dopo appena due anni di vita, l’associazione fu costretta
alla chiusura. A determinarne l’epilogo, un articolo pubblicato da
Azaykou sulla rivista Amazigh, organo della stessa ACA. Il poeta, che
aveva proposto una rilettura della storia nazionale in chiave
berbera, fu incarcerato per un anno ed il giornale messo al bando.
Durante
gli anni settanta e ottanta le associazioni
berbere, a carattere locale (specie nella regione del Rif e nel
sud-est del paese) e strettamente culturale, sono pian piano
aumentate. La
seconda organizzazione
amazigh ad installarsi su scala nazionale è l’Association nouvelle
pour la culture et les arts populaires (ANCAP),
nata a Rabat nel 1987. Tra i fondatori dell’ANCAP, oggi conosciuta
con l’acronimo amazigh Tamaynout
(denominazione utilizzata ufficialmente solo dal 1995), ci sono
ex-membri dell’AMREC e militanti dell’opposizione marxista,
provenienti nella maggior parte dei casi dalla regione del Suss.
L’organizzazione, oltre alla promozione della cultura amazigh sul
territorio nazionale, si è concentrata sulle evoluzioni della
giurisprudenza internazionale, seguite alla Dichiarazione ONU sui
diritti delle minoranze etnico, religiose, linguistiche (1992). Il
presidente dell’associazione, l’avvocato Hassan Id Belkassim, si
è visto riconoscere lo status di osservatore dalla Commissione ONU
per i diritti umani con sede a Ginevra.
Con
l’inizio degli anni novanta e la fine degli
“anni di piombo”, segnali di apertura da parte dello Stato
sembrano garantire una maggiore libertà politica ed un sensibile
progresso nel rispetto dei diritti umani. In questo momento il
movimento amazigh decide di promuovere apertamente le proprie
rivendicazioni. Le principali associazioni emergono dalla condizione
di marginalità e semi-clandestinità impostagli dal regime nei due
decenni precedenti. Si coordinano e producono il
primo manifesto unitario e programmatico del movimento, la Charte
de la langue et de la culture amazighe,
conosciuta come Carta di Agadir. E’ la
prima volta che, in un documento ufficiale, compare il termine
“amazigh”. La Carta viene presentata all’Université d’Eté
de Agadir , nell’agosto del 1991, ed è sottoscritta da sei
associazioni (AMREC, Tamaynout, Association Université d’Eté de
Agadir, Association culturelle Gheris - attuale Tilleli, Association
Ilm Ass, Association culturelle du Souss). Le rivendicazioni avanzate
per la prima volta pubblicamente dal movimento berbero si possono
sintetizzare in cinque punti: riconoscimento costituzionale della
lingua amazigh; creazione di un istituto nazionale amazigh per lo
studio e la ricerca storica, culturale e linguistica; introduzione
della lingua amazigh nel sistema di istruzione nazionale; inclusione
della lingua e della cultura berbera tra le linee guida della ricerca
promosse dalle università e dagli istituti nazionali; utilizzo della
lingua amazigh nei mass-media.
Il
movimento acquisisce forza in questi anni e
aumentano le dimostrazioni pubbliche. Nel 1994 un gruppo di studenti
berberi manifesta all’interno dell’Università di Fès,
innescando la reazione violenta dei colleghi aderenti ad
organizzazioni islamiche. Nello stesso anno, durante le
manifestazioni del 1° maggio a Goulmima (città situata alle falde
orientali del Medio Atlante), sette attivisti dell’associazione
amazigh Tilleli vengono arrestati per aver sfilato in strada con
striscioni e manifesti scritti in tifnagh (alfabeto berbero). Il
gruppo, accusato di aver attentato alla sicurezza dello Stato e alla
costituzione, è condannato a cinque anni di carcere.
Pochi
mesi dopo, mentre la mobilitazione all’interno
del movimento si intensifica, Hassan II
riconosce per la prima volta pubblicamente l’esistenza di una
“questione berbera” in Marocco, con
il già ricordato discorso del 20 agosto 1994, pronunciato in
occasione della Festa della rivoluzione del re e del popolo. Ma alle
promesse del sovrano, che sembravano raccogliere almeno parte delle
rivendicazioni sancite dalla Carta di Agadir (l’insegnamento della
lingua berbera, a cui Hassan II attribuisce, non a caso, lo statuto
di “dialetti marocchini”), non fa seguito nessun riconoscimento
concreto.
La
fine degli anni novanta segna in realtà un
periodo di stallo per la compagine berbera, sia per l’assenza di
risposte da parte del governo sia per le divisioni interne. Viene
meno lo spirito unitario che aveva fatto uscire allo scoperto il
movimento. Le associazioni amazigh si moltiplicano, come del resto le
fratture e le divergenze tra queste. Le due organizzazioni di
riferimento, l’AMREC e Tamaynout, ormai perseguono obiettivi
distinti: la prima, più moderata, vuole il dialogo con il regime e
per questo tenta di prendere le distanze dal movimento; la seconda,
più attenta alle rivendicazioni provenienti dalla base e alle
condizioni socio-economiche delle popolazioni berbere che vivono
nelle regioni interne (in gran parte povere e sottosviluppate),
sceglie un terreno di scontro prettamente politico (non più
esclusivamente culturale) con le autorità, forte anche del sostegno
delle associazioni radicali fiorite nel Rif.
Allo stesso tempo, però, la successione al
trono suscita nuove speranze di cambiamento nella gestione monarchica
della “questione amazigh”.
La morte
di Hassan II nel 1999 e l’arrivo al trono di Mohammed VI sembra
aprire le porte ad una accelerazione della politica berbera del
regime. Il nuovo re annuncia che la berberità del Marocco sarà una
delle cinque priorità (oltre alla revisione dello statuto della
donna, la riforma costituzionale, la riparazione per le vittime degli
“anni di piombo” e la chiusura del “dossier Sahara”) su cui
concentrerà la sua azione di governo. La congiuntura politica è
favorevole e il movimento capisce che è necessario superare le
divisioni interne (e i contrasti tra le associazioni) per ridare
forza al dibattito, ormai aperto e a carattere nazionale, sul
riconoscimento della berberità e per meglio sostenere le proprie
rivendicazioni di fronte alle istituzioni.
La prova del ritrovato dinamismo del
movimento è la redazione del Manifeste
amazigh, una nuova
piattaforma programmatica
e unitaria che accoglie, oltre alle note rivendicazioni linguistiche
e culturali, istanze prettamente sociali e politiche maturate
all’interno del variegato movimento berbero nel corso dell’ultimo
decennio. Il Manifesto è redatto nel marzo del 2000 da una delle
massime personalità del panorama intellettuale amazigh, Mohamed
Chafik, ed è sottoscritto da 229 militanti, provenienti non soltanto
dal contesto associativo. Secondo Ahmed Assid, intellettuale e
filosofo berbero (firmatario del Manifesto) a lungo membro
dell’AMREC, “in questa fase le associazioni, che avevano
determinato la crisi del movimento alla fine degli anni novanta,
passano in secondo piano e lasciano il posto ai singoli attivisti, ad
individui svincolati dalle appartenenze politiche e associative e dal
perseguimento di interessi particolaristici”.
Il Manifesto segna ufficialmente il passaggio
del movimento berbero marocchino da una rivendicazione strettamente
linguistica e culturale ad una più ampia rivendicazione politica e
sociale. Il suo
contenuto, che richiama
nel preambolo la necessità di una revisione del concetto di identità
nazionale, può essere riassunto in nove punti: la “questione
amazigh” deve essere posta al centro di un dibattito politico
nazionale aperto, rivolto a tutte le componenti politiche e sociali
del paese; la lingua amazigh deve essere inclusa nella costituzione e
riconosciuta come lingua ufficiale; le regioni berbere devono poter
beneficiare di importanti programmi di sviluppo socio-economico;
l’insegnamento obbligatorio della lingua amazigh e la creazione di
un istituto nazionale per la standardizzazione della lingua stessa;
la revisione dei programmi e dei manuali scolastici, con il
conseguente riconoscimento del ruolo rivestito dai berberi nella
costruzione di un’identità veramente nazionale; l’adozione della
lingua amazigh nei media e nell’amministrazione; la possibilità di
assegnare nomi berberi ai nuovi nati e ai luoghi simbolo della
memoria collettiva berbera; che siano stanziati fondi per il sostegno
all’arte e al patrimonio tradizionale berbero; il riconoscimento
della pubblica utilità delle associazioni amazigh, affinché queste
possano beneficiare del finanziamento pubblico previsto dalla legge.
Dopo
la pubblicazione del Manifesto, in attesa di una
risposta da parte del sovrano e delle istituzioni politiche, il
movimento, forte di una ritrovata unità ed energia, lancia una
campagna di promozione del documento, durante la quale il Manifesto
raggiunge un milione di firmatari. A Bouznika (Rabat) si riunisce nel
luglio 2000 il Comité National du Manifeste amazigh , incaricato di
diffondere il testo in tutto il territorio nazionale. Nei giorni del
congresso viene proposta per la prima volta l’idea della creazione
di un partito politico amazigh. Tuttavia, la seconda riunione del
Comitato, prevista a Bouznika nel luglio 2001, non è autorizzata
dalle autorità, “spaventate dalla minaccia etnicista e separatista
che l’evento avrebbe assunto” .
Mohammed
VI, che fino a quel momento non aveva
fornito alcuna risposta ufficiale all’invio del Manifesto,
considera l’aumento della partecipazione all’interno del
movimento amazigh come una minaccia sempre più concreta alla
stabilità del regno. Bisogna ricordare inoltre che nel 2000
l’Algeria è sconvolta da una rivolta in Cabilia, passata alla
storia come “primavera nera” per l’efferatezza con cui è stata
repressa. Come afferma Laura Feliu, “per Mohammed VI era arrivato
il momento di prendere la situazione in mano; serviva l’attuazione
di una vera e concreta politica berbera, per evitare la
radicalizzazione del movimento e la possibile ripetizione dello
scenario algerino, oltre che per arginare la deriva politica dei
militanti amazigh marocchini” .
La risposta del re arriva con il discorso del
trono pronunciato il 20 luglio 2001, una svolta che segna di fatto
l’appropriazione e l’istituzionalizzazione della “questione
amazigh” da parte del regime. Mohammed
VI offre per la prima volta una visione positiva dell’apporto
berbero alla cultura nazionale e parla di identità nazionale
plurale. Nel suo discorso il sovrano annuncia anche la creazione
dell’IRCAM (Institut royal pour la culture amazigh au Maroc), poi
confermata dal dahir
(decreto reale) del 17 ottobre 2001, presentato in occasione del
discorso di Ajdir. Il re conferma la volontà di “consolidare i
pilastri sui quali riposa la nostra identità ancestrale e dare un
nuovo impulso alla nostra cultura amazigh (…) per darle i mezzi e
la forza necessaria a conservarsi e svilupparsi”. L’IRCAM si vede
assegnato “il compito di assicurare, accanto ai dipartimenti
ministeriali competenti, la preparazione e l’accompagnamento del
processo di integrazione dell’amazigh nel sistema di insegnamento
nazionale”.
L’insegnamento
della lingua berbera, cominciato nel
2004 nelle scuole elementari, apre certamente nuove prospettive per
la diffusione e il riconoscimento della cultura amazigh all’interno
del paese. Ma tale riconoscimento presuppone, come ha spiegato il
sovrano nel suo discorso in occasione della nomina del consiglio di
amministrazione dell’IRCAM (27 giugno 2002), che “la berberità
non debba essere messa al servizio di interessi politici”. In altre
parole, attraverso la creazione dell’IRCAM Mohammed VI ha dato una
risposta prettamente culturale alle rivendicazioni presentate dal
movimento amazigh, rivendicazioni divenute sempre più politiche e
sociali. Se la monarchia considera a questo punto concluso il suo
compito per la risoluzione della “questione berbera”, parte degli
attivisti, degli intellettuali e delle associazioni berbere non
sembrano essere dello stesso avviso. Per la maggioranza dei
militanti, l’IRCAM è un’istituzione monarchica creata al solo
fine di strumentalizzare e neutralizzare le azioni del movimento
berbero marocchino. Secondo lo storico Pierre Vermeren, “la fonte
principale dello scontento resta la povertà e la marginalizzazione
economica delle regioni in cui vivono le popolazioni berbere, ancora
sprovviste di scuole, infrastrutture, ospedali e centri industriali
di rilievo”.
Altra
questione rimasta in sospeso dal 2001 è la
creazione di un partito amazigh. Dopo il rifiuto di numerose domande
di autorizzazione, un Partito democratico amazigh marocchino (PDAM) è
stato creato dall’avvocato Ahmed D’ghirni alla vigilia delle
elezioni legislative del settembre 2007. Tuttavia il ministro
dell’Interno ha impedito la sua partecipazione alla competizione
elettorale, denunciando il partito di fronte al tribunale
amministrativo di Rabat e ottenendo la sua dissoluzione per
“etnicismo” nell’aprile 2008.
Sebbene
il “fronte berbero” sia uscito
frammentato dalla creazione dell’IRCAM e dalla nomina dei suoi
effettivi (altra conseguenza prevista dalla strategia del monarca),
gli eventi e l’attivismo mostrato negli ultimi dieci anni (le
manifestazioni in seguito agli attentati di Casablanca nel 2003, le
rivolte nei villaggi del Rif e del Medio Atlante scoppiate tra il
2007 e il 2010) costituiscono una testimonianza concreta della nuova
dimensione politica assunta dal movimento amazigh.
Intervista ad Ahmed Assid
realizzata da Jacopo
Granci, Rabat 26/07/2010.
"CORREGGETE
I LIBRI
DI STORIA, NON SIAMO
ARABI", I BERBERI MARCIANO SU RABAT
Centinaia di bandiere
tricolori (giallo-verde-blu)
hanno sfilato nelle vie della capitale marocchina. Circa duemila
attivisti berberi - provenienti da tutto il territorio nazionale -
hanno manifestato per la piena affermazione della propria identità e
hanno espresso solidarietà alla lotta condotta dagli imazighen nei
villaggi del "Marocco profondo". Dopo la contestazione
politica (20 febbraio) e sociale (disoccupati), si apre un nuovo
fronte di protesta.
"Avanziamo passo dopo passo,
ma il cammino da
percorrere è ancora lungo", ha scandito il corteo partito
domenoca 15 gennaio da piazza Bab el-Had, dove la maestosa porta
scolpita sulla pietra rossa separa i cunicoli della medina dal
quartiere Ocean.
Nonostante i progressi
compiuti negli ultimi anni
sulla strada del riconoscimento linguistico e culturale, gli
imazighen ("berberi", plurale di amazigh) - oppressi nei
decenni post-indipendenza (1956) dalla supposta uniformità
arabo-musulmana su cui si è costruita l'identità del Marocco
moderno - non sembrano intenzionati a fare sconti al regime.
"Correggete i
libri di storia, noi non
siamo arabi": è uno degli slogan più ricorrenti intonati dagli
attivisti.
Il
riferimento è ai manuali scolastici tuttora in
uso, dove la storia del paese inizia con l'arrivo degli arabi nel VII
secolo d. C. e con la conversione della popolazione all'islam. Della
civiltà nordafricana antecedente all'era islamica non vi è quasi
nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine
jahiliyyah, il tempo
dell'"ignoranza".
Per
il movimento
berbero marocchino,
in fase di
rinnovamento e di espansione della sua base sociale, si è trattato
della prima tawada ("marcia"
in tamazigh) nazionale, dopo il tentativo abortito nel 2000 a causa
di conflitti interni.
Il risultato - non certo paragonabile alla
tawada
cabila
del giugno 2001, quando due milioni di berberi algerini marciarono da
Tizi Ouzou ad Algeri (oltre 100 km) dopo le violenze del 'printemps
noir'
- ha lasciato comunque
soddisfatti gli organizzatori per l'entusiasmo e la partecipazione.
La nuova
generazione amazigh
Yassine
el-Yaakoubi ha diciassette anni. Il suo volto
sorridente quasi si nasconde dietro allo striscione "libertà
per Mustapha e Hamid" - due militanti in carcere a Meknes dal
2007 - scritto in caratteri tifinagh.
Con
alcuni amici è partito alle prime luci dell'alba
da Imintanout, cittadina alle pendici dell'Alto Atlante occidentale,
per apportare il suo contributo all'evento.
"Un
vecchio attivista del posto ha messo a
disposizione un minibus e ci ha pagato le spese di trasporto",
confida Yassine, giunto a Rabat per la prima volta e quasi
ipnotizzato dall'architettura della città.
L'appello alla tawada
è
stato diffuso a fine dicembre
dagli studenti delle facoltà. La nuova generazione del movimento,
con pochi mezzi a disposizione, ha deciso di rilanciare la
contestazione di fronte alla titubanza delle storiche associazioni
culturali, protagoniste della rivendicazione amazigh fino alla fine
degli anni novanta ma ormai in crisi di legittimità.
"Trovato
l'accordo sulla piattaforma,
l'organizzazione è avvenuta tramite facebook ed è lì che sono nati
i coordinamenti regionali a Casablanca, Marrakech, Agadir, Meknes e
Errachidia. Tuttavia solo poche delegazioni hanno potuto permettersi
il viaggio verso la capitale", spiega Asafar Lihi, originario di
Goulmima (sud-est), tra i promotori dell'evento.
"Chiediamo
la liberazione immediata dei nostri
detenuti politici, la fine della marginalizzazione economica patita
dalle regioni berberofone e una effettiva ufficializzazione della
lingua amazigh", gli fa eco Said Elferouah, studente
all'università di Agadir.
"Non è con un semplice articolo nella
Costituzione che ci metteranno a tacere". Ma la manifestazione è
anche l'occasione per celebrare l'inizio del nuovo anno berbero, il
1° Yennayer (14 gennaio), che il movimento vuole veder riconosciuto
come giorno di festa nazionale.
Tamazight
lingua ufficiale solo a metà
La
Costituzione
approvata nel luglio scorso su iniziativa del sovrano Mohammed VI ha
attribuito (art. 5) alla lingua berbera (parlata da circa il 40%
della popolazione) lo status di idioma ufficiale accanto all'arabo,
ma nel complesso le misure offerte dal nuovo testo non hanno
soddisfatto i giovani attivisti e le organizzazioni più radicali del
movimento.
"La
costituzionalizzazione è senz'altro un
passo verso l'avvenire, ma resta un dispositivo parziale e in sé
insufficiente, dal momento che la sua applicazione - il bilinguismo
nelle amministrazioni e nei tribunali o la generalizzazione
dell'insegnamento - è vincolata ai provvedimenti legislativi del
Parlamento. Con la nuova maggioranza islamista-nazionalista [PJD,
Istiqlal],
storicamente ostile all'affermazione della berberità, c'è il
rischio che l'assemblea blocchi il processo di ufficializzazione e
rimetta in discussione le conquiste ottenute", dichiara Mounir
Kejji, fondatore del centro di documentazione Tarik Ibn Zyad, in
marcia in mezzo alla folla con la bandiera tricolore legata sulle
spalle.
Tra
le conquiste menzionate da Mounir, l'ingresso del
tamazight nei
programmi di istruzione, la pubblicazione dei manuali scolastici per
il suo insegnamento - iniziato in forma sperimentale dal 2002 - e la
scelta della grafia tifinagh per la standardizzazione della lingua,
come stabilito dagli accordi tra l’IRCAM (l'Istituto reale della
cultura amazigh) e il ministero dell’Educazione.
"Sono acquisizioni a cui non siamo
disposti a rinunciare", ricordava di recente ad
Osservatorioiraq.it il professor Ahmed
Assid, responsabile dell'Observatoire amazigh des droits et des
liberté (OADL).
"Vogliono
costringerci a scrivere la nostra
lingua con le lettere arabe, ma il tifinagh non è soltanto un
alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati nel paese, sono parte
integrante della nostra identità sopravvissuta a secoli di
arabizzazione".
Nel 1994, per aver esposto uno striscione in
tifinagh
durante
la manifestazione del 1° maggio, Ali Ikem e altri sei attivisti
dell'associazione Tilelli (Goulmima) finirono in arresto con l'accusa
di "attacco alla sicurezza dello Stato e alla Costituzione".
Il
caso suscitò indignazione ben oltre i confini
nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di
amnistia.
Oggi Ali scrive romanzi e poemi nella sua
lingua materna e si dedica alla raccolta e alla trascrizione del
patrimonio orale (canti, poesie e miti) della regione, per fissarlo
nella memoria collettiva.
"All'epoca
eravamo in pochi. Combattere il culto
dell'arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato.
Ricordo i viaggi in Algeria e gli anni del contrabbando culturale.
Portavamo con noi libri, audiocassette e manifesti per diffondere in
Marocco l'esperienza del sollevamento cabilo, esploso nel 1980 con le
grandi mobilitazioni del 'printemps
berbère'.
Adesso
i giovani amazigh sono numerosi e ostentano
con fierezza la loro appartenenza. Per il regime non sarà facile
tenere testa ad una simile pressione. Ciò significa che la nostra
lotta non è stata vana", afferma lo scrittore, indicando la
folla in marcia di fronte al Parlamento.
I villaggi si rivoltano contro
l'emarginazione
Oltre
alle rivendicazioni prettamente linguistiche e
identitarie, i manifestanti hanno brandito striscioni e cartelli in
solidarietà agli imazighen
di Imiter,
da cinque mesi in lotta contro la società di estrazione che gestisce
la miniera d'argento nell'Alto Atlante orientale.
"Le
grandi imprese sfruttano le risorse presenti
nel nostro territorio, fanno profitti, ma la popolazione locale viene
messa da parte. Non ci sono investimenti nella regione, perfino le
infrastrutture di base - strade, scuole, ospedali - sono carenti. I
nostri figli partiti a Errachidia o a Meknes per terminare gli studi,
nonostante il diploma o la laurea, si ritrovano sempre più spesso
disoccupati", riferisce Moha Bensaid, un insegnante proveniente
da Tinghir, a pochi chilometri dalla cittadina in rivolta sul monte
Alebban.
"Abbiamo combattuto la
colonizzazione e ci hanno
ricompensato con l'esclusione", rilanciano gli attivisti dalla
testa del corteo.
La protesta contro la marginalizzazione in
cui versano le aree a maggioranza berberofona, le ultime a cedere le
armi di fronte alla penetrazione francese (Rif e Alto Atlante)
durante il protettorato, è uno dei temi centrali su cui si sta
concentrando l'azione del movimento amazigh.
Le
ribellioni a carattere locale sono divenute ormai
un fenomeno endemico nel paese, dove lo sviluppo resta delimitato
alle grandi città e alla costa atlantica.
Prima
di Imiter, nell'agosto del 2011, era stata la
volta degli abitanti di M'rirt, villaggio situato nel Medio Atlante
(Khenifra), a scendere in strada per denunciare le condizioni di
degrado e di precarietà sociale in un'area pertanto ricca di
giacimenti minerari (oro e zinco).
Per
Rachid Raha, vicepresidente dell'Assemblée
mondiale amazighe, il prossimo obiettivo del movimento "sarà
fare in modo che le proteste sociali, rimaste fino ad ora
circoscritte, e le iniziative promosse dalle associazioni e dai
giovani militanti convergano in unico fronte di lotta".
Un paese in
fermento
La
tawada berbera
si iscrive sulla scia della contestazione politica che da quasi un
anno, nonostante le "aperture" del sovrano, è in corso nel
regno alawita.
Alla
manifestazione di domenica scorsa hanno preso
parte anche alcuni esponenti del movimento
20 febbraio e gli
attivisti dell'AMDH
(l'associazione marocchina per i diritti umani).
"Lottare
per i diritti del popolo berbero
significa lottare per un Marocco democratico e plurale. Le
rivendicazioni amazigh sono parte integrante della nostra
piattaforma, a cui le autorità hanno risposto con grandi proclami e
riforme inefficaci. Per questo la protesta va avanti", ha
dichiarato Nizar Bennamate, tra i membri più attivi del comitato "20
febbraio" della capitale.
Le
critiche degli imazighen
in marcia a Rabat non hanno risparmiato né il nuovo premier
Abdelilah Benkirane né l'entourage
reale, accusata di malversazione e corruzione.
"I martiri sono nelle tombe e i ladri
siedono a palazzo", ha scandito il corteo, prima di passare ad
uno degli slogan più diffusi - almeno nell'anno appena trascorso -
nella sponda sud del Mediterraneo: "il popolo vuole la caduta
del regime".
Mentre
una nuova tawada
è già stata indetta per il prossimo aprile, il Marocco di Mohammed
VI sembra essere entrato in una fase di intensa mobilitazione.
La
rivolta
popolarescoppiata
a Taza (nord-est) ad inizio
gennaio è stata sedata solo dopo l'intervento delle forze di polizia
giunte da Fes, in soccorso agli effettivi locali sorpresi dal
sollevamento.
I
laureati-disoccupati in sit-in a Rabat, invece,
hanno occupato la sede del ministero dell'Educazione per dodici
giorni fino a quando, lo scorso mercoledì, cinque di loro si sono
cosparsi di benzina e poi dati
alle fiamme (ricoverati all'ospedale di Casablanca, restano
tuttora in gravi condizioni).
Non
vi è dubbio che "fine" strategìa c'è stata e c'è
tuttora nel perseguire, con spirito di mediazione e di tolleranza, la
politica di cooperazione in campo etnico, religioso e di
civile movimentismo di natura
a-politica:
LE
DONNE E
LA POLITICA IN MAROCCO
Senza
la partecipazione delle donne la democrazia è inconcepibile. Dopo due
decenni le parlamentari marocchine, le associazioni femministe, dei
ricercatori, uomini e donne sono “alla ricerca di giustizia in un mondo
di illegalità”, per riprendere le espressioni usate dall'istituto di
ricerca delle Nazioni Unite sullo sviluppo sociale.
Uomo e
donna
Lo
scrutinio del 2007 s'iscrive in una strategia politica e in un
programma adottato dallo stato marocchino e dalla società civile su
vasta scala per promuovere l'uguaglianza uomo-donna e ci dà
l'impressione, attraverso la campagna elettorale e i programmi dei
partiti, di voler contribuire a una forte partecipazione delle donne
alla gestione degli affari pubblici. Questo è ciò che si evince nel
corso della preparazione di queste elezioni.Prendendo atto dei notevoli
progressi in materia di riconoscimento dei diritti delle donne in
particolare nelle esperienze delle Ong e dei partiti politici, ....
riteniamo che molto resti da fare e che le cifre delle elezioni del
2002/2003 lo testimoniano: il 10,8 di tutti i parlamentari e solamente
il 0,54 percento degli eletti comunali sono donne.Per far fronte a
questo deficit e tenuto conto della problematica della partecipazione
delle donne nella politica, - che è una battaglia non solamente
femminile ma anche degli uomini per l'uguaglianza, la democrazia e la
giustizia sociale - le donne marocchine danno prova ogni giorno di
essere sempre più presenti nel mondo degli affari, sulla scena
economica e sociale, nel settore culturale associativo e sportivo, ma
la loro partecipazione alla politica resta un grande paradosso che i
partiti e lo Stato sono invitati ad affrontare.
Se il Marocco nel 2002 ha aperto la via del mondo arabo al ricorso
delle liste nazionali come misura di rafforzamento della rappresentanza
parlamentare femminile, l'esempio marocchino ha segnato un'evoluzione
recente nel mondo arabo e in Africa. La questione che si pone
all'ordine del giorno delle elezioni legislative e che fa sprecare
tanto inchiostro è che i partiti politici marocchini hanno contribuito
per una certa parte all'evoluzione in materia di integrazione politica
delle donne. E' ciò che si constata dagli sforzi fatti dal 2002 fino
alla vigilia delle elezioni del 2007, per aumentare la rappresentanza
delle donne e la loro integrazione. Troviamo la risposta nel livello di
astensione registrato il giorno del voto, sapendo che più della metà
della popolazione marocchina è di sesso femminile.
Una
mentalità
vecchia
La
maggior parte dei partiti politici marocchini sono rimasti ancorati
alle loro pratiche e alla cultura dell'approfittare delle difficili
condizioni socio-economiche delle donne per trarne profitto il giorno
del voto.
Il principio della lista nazionale è
stato tollerato con, come garanzia, un patto d'onore a cui i partiti
hanno aderito e al quale si sono adeguati nelle elezioni del settembre
2002. Ma per la compilazione delle liste locali poche donne sono state
messe a capo delle stesse, dando così solo a quattro donne la
possibilità di essere effettivamente elette.In effetti, il cammino
resta ancora lungo, il deficit di rappresentanza e d'integrazione delle
donne a livello mondiale non può costituire un alibi per il Marocco,
che si pone in sesta posizione nel mondo arabo dopo l'Iraq con il 25,5
percento, la Tunisia con il 22,8 percento, la Mauritania con il 20,9
percento, la Siria con il 17,8 percento e il Sudan con il 12 percento.
Siamo ancora molto distanti dai paesi nordici o dal Ruanda, la cui
testimonianza è stata edificante: l'esperienza ruandese è andata al di
là della quota minima del 30 percento per arrivare ad una
rappresentanza femminile che va oltre il 49 e dovrebbe per questo
costituire un esempio da seguire per il Marocco.Le elezioni del 2007
costituiscono una tappa importante per la stabilizzazione delle
pratiche democratiche nella vita politica del Paese. L'assenza di
partecipazione femminile al voto, il quale rappresenta un esercizio
effettivo della cittadinanza, è essa stessa pregiudiziale allo sviluppo
della democrazia. La rappresentanza e l'integrazione cosciente delle
donne nell'elites politiche nazionali sono lontane dal riflettere la
proporzione demografica e la misura del loro contributo
economico.Infine, in generale, il Marocco è invitato dalla volontà
politica e dalle iniziative dei partiti, dello Stato e della società
civile, a contribuire a rinforzare la rappresentanza politica delle
donne e a giocare il ruolo di “locomotiva” di uno sviluppo sensibile al
“genere”.
Nezha
Elouafi
ricercatrice marocchina in Scienze
sociali
www.peacereporter.net
LA
QUESTIONE ISLAMICA
La
maggior parte dei marocchini professa l'Islam. Oltre ai musulmani in
Marocco sono presenti circa 80 000 cattolici, per lo più
francesi,
e 8.000 ebrei, la comunità ebraica più numerosa del mondo arabo, che
prima della fondazione dello Stato di Israele contava più di 300.000
ebrei sefarditi.
L'islam tradizionale nordafricano presenta
alcune caratteristiche particolari come il culto dei marabutti e dei
santi (Sidi), le cui tombe sono oggetto di pellegrinaggi. Rispetto alla
vicina Algeria, in Marocco sono molto meno numerosi e diffusi i
fenomeni di terrorismo.
Sebbene il re sia considerato discendente
del Profeta e "Comandante dei credenti", la legislazione è notevolmente
laica, in particolare con un codice di diritto di famiglia (Mudawana),
riformato nel 2004, che tutela le donne molto più di quanto non faccia
la legislazione a base islamica di altri Stati a maggioranza musulmana.
Anche l'uso degli alcolici, sebbene vietato dalla legge coranica, non è
punito dalla legge marocchina. Inoltre, è molto seguito il calendario
occidentale per cui, nelle città più importanti e/o più turistiche,
molto spesso è la domenica, e non il venerdì, il giorno di riposo.
ISLAM
DI MAROCCO
Venerdì scorso in Marocco si sono tenute le prime elezioni dopo
l’approvazione delle timide riforme costituzionali promosse dal
sovrano, Mohammed VI, in risposta alle proteste di piazza che
dall’inizio dell’anno stanno interessando anche questo paese
nordafricano. A conquistare la maggioranza relativa è stato il partito
islamista moderato Giustizia e Sviluppo (PJD) il quale, nonostante la
necessità di fare affidamento su altre formazioni politiche per la
creazione del nuovo governo, potrà per la prima volta indicare il nome
del prossimo primo ministro.
Quello del PJD in Marocco è
il secondo successo elettorale in poche settimane ottenuto da un
partito d’ispirazione islamica, sia pure moderata, dopo l’affermazione
di Ennahda in Tunisia, mentre precede la probabile vittoria dei
Fratelli Musulmani in Egitto, dove la prima fase del discusso processo
di transizione ha preso il via con il voto di lunedì.
Secondo i risultati
definitivi annunciati dal governo, il PJD ha conquistato 107 seggi sui
395 complessivi del parlamento marocchino, vale a dire più del doppio
della sua attuale rappresentanza (46). Come stabilito dalle recenti
modifiche costituzionali, il nuovo premier verrà scelto dalle fila del
partito con il maggior numero di seggi che procederà poi a formare la
coalizione di governo. Candidato alla carica di primo ministro è il
segretario del partito, Abdelilah Benkirane, il quale dovrebbe
diventare non solo il primo capo di governo marocchino espressione di
una consultazione popolare, ma anche il primo appartenente ad un
partito islamista. Fino ad ora, il sovrano aveva facoltà di indicare un
primo ministro di sua scelta e l’incarico era perciò sempre stato
assegnato ad un esponente dei partiti che tradizionalmente orbitano
attorno alla corte alauita.
Non avendo raggiunto la maggioranza assoluta nel nuovo parlamento, il
PJD dovrà trovare dei partner di coalizione. Molto probabile appare un
accordo con l’attuale formazione di governo, il partito nazionalista
conservatore Istiqlal (Indipendenza). Quest’ultimo, storico partito
della monarchia marocchina, ha ottenuto 60 seggi (+ 8 rispetto al 2007)
e l’attuale premier, Abbas El Fassi, nella giornata di sabato ha già
confermato di essere pronto ad entrare in un governo di coalizione con
Giustizia e Sviluppo. Al terzo posto, con 52 seggi (+ 13), si è
posizionato poi un altro raggruppamento vicino al sovrano, l’Unione
Nazionale degli Indipendenti (RNI) di centro-destra, guidato dal
Ministro delle Finanze in carica, Salaheddine Mezouar.
Come nel resto del mondo
arabo, anche in Marocco a inizio anno avevano cominciato a diffondersi
proteste popolari che chiedevano una democratizzazione del sistema,
monopolizzato dall’istituzione monarchica. Qui, tuttavia, le
manifestazioni sono sempre state relativamente contenute e non si sono
verificati gravi episodi di violenza come in altri paesi. In risposta
alle richieste avanzate principalmente dal Movimento 20 Febbraio,
Mohammed VI si era comunque mostrato disponibile a rinunciare ad alcune
prerogative reali e a lanciare riforme di facciata.
Un’apposita
commissione da lui istituita aveva così studiato una serie di riforme
costituzionali che sono state poi approvate a larga maggioranza tramite
un referendum popolare nel mese di luglio. In base alle nuove misure,
il sovrano è stato privato del potere di controllo sul sistema
giudiziario, ma anche, come già anticipato, di scegliere il primo
ministro senza tenere conto dei risultati elettorali e di sciogliere il
parlamento. Queste e altre modifiche, tuttavia, hanno mantenuto
sostanzialmente immutata la struttura del potere in Marocco, dove la
monarchia continua ad avere un ruolo centrale. Il re conserva, infatti,
tutto il proprio potere decisionale, ad esempio sulle questioni
religiose, sulla politica estera e in materia di sicurezza e difesa.
Mohammed VI era salito al
trono nel 1999 in seguito alla morte del padre, Hassan II, e viene
generalmente considerato in Occidente come un riformatore che ha
relativamente aperto la società marocchina e limitato gli abusi dei
diritti umani nel paese. Nonostante una serie di misure di impatto
limitato, il Marocco in questi dodici anni non ha in realtà evidenziato
progressi democratici significativi, come confermano le persistenti
detenzioni per motivi politici e le distorsioni seguite alla
partnership con Washington nell’ambito della cosiddetta guerra al
terrore.
La risposta della
maggioranza della popolazione marocchina ai presunti cambiamenti del
panorama politico marocchino negli ultimi mesi è sembrata in ogni caso
piuttosto tiepida. L’affluenza alle urne ha fatto segnare qualche
progresso dalle ultime elezioni nel 2007, passando dal 37 al 45,4 per
cento. Il dato di venerdì è però nettamente inferiore rispetto al 2002,
quando votò il 51,6 per cento degli elettori registrati. Oltre alla
disillusione per un sistema in gran parte identico al recente passato,
sul numero dei votanti ha influito anche l’appello all’astensione del
Movimento 20 Febbraio, che ritiene inadeguate le riforme di Mohammed VI
e continua a chiedere una monarchia costituzionale sul modello
britannico.
Il partito Giustizia e
Sviluppo si ispira all’omonimo partito di governo turco e promuove un
Islam moderato. Nel corso della campagna elettorale appena conclusa
sono stati pressoché totalmente tralasciate le questioni religiose, per
puntare piuttosto sulle emergenze economiche e sociali degli strati più
disagiati della popolazione. Come Ennahda in Tunisia, d’altra parte,
anche il PJD intende dare un’immagine rassicurante di sé come prossima
forza di governo, così da non inimicarsi i partner occidentali del
Marocco.
Il PJD, oltretutto,
appoggia la casa reale, al contrario di al-Adl Wal Ihsane (Giustizia e
Carità), un altro movimento islamista di massa, ufficialmente illegale
anche se tollerato dal governo, che ha partecipato alle proteste di
piazza promosse dal Movimento 20 Febbraio e, come quest’ultimo, ha
insistito per il boicottaggio delle elezioni. Il successo del PJD
conferma comunque il discredito dei partiti vicini al sovrano o
nominalmente di opposizione. In mancanza di valide alternative, la
maggioranza dei marocchini che si sono recati alle urne ha scelto di
votare per gli islamisti moderati, i cui appelli populisti hanno avuto
un certo successo tra le classi medie e quelle più povere.
Nonostante alcune agenzie
di stampa abbiano scritto di insolite apparizioni sulle TV locali di
giornaliste marocchine con l’hijab all’indomani del voto, è improbabile
che la vittoria del PJD possa produrre una svolta in senso islamista o
anti-occidentale in Marocco. A confermarlo sono stati, tra l’altro, i
commenti positivi dei governi di Francia e Stati Uniti. Da Parigi, il
Ministro degli Esteri, Alain Juppé, ha affermato che “il risultato del
voto va rispettato” e che a suo parere il PJD “ha posizioni
moderate”.
Da Washington, invece, il
Segretario di Stato, Hillary Clinton, si è congratulata per il
“successo delle elezioni”, ricordando che i leader scelti dal voto “non
saranno giudicati soltanto da quello che dicono ma anche da quello che
fanno”. A cominciare dalla disponibilità a continuare ad assecondare
gli interessi americani, ovvio.