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La libertà d'espressione in
Marocco. La fine di un'era e l'inizio di un'altra
 
libertà di espressione in Marocco


di Hicham Houdaïfa – Rabat   

tratto da Babelmed

Subito un dato: nel suo ultimo rapporto annuale sulla libertà d’informazione, reso pubblico giovedì 17 ottobre, Reporter Senza Frontiere colloca il Marocco in una posizione poco invidiabile, 136°. Molto dietro il vicino algerino (125°) e classificato peggio della Libia (131°).

Che cosa rimprovera RSF al Marocco, che resta pur sempre un paese stabile, nel mezzo di un mondo arabo alle prese con guerre civili, colpi di stato e gravi crisi economiche? Innanzitutto, le promesse non mantenute. RSF evoca delle riforme annunciate in pompa magna dal governo Abdelilah Benkirane, il capo del Partito Giustizia e Sviluppo (PJD), arrivato primo alle elezioni legislative del novembre 2011. Questo esecutivo, che ha il compito di applicare la nuova Costituzione, adottata dalla quasi unanimità dai marocchini, il 1° luglio dello stesso anno, aveva promesso, tra l’altro, “la depenalizzazione dei delitti d’informazione”. Parole al vento…

Giornalisti in prigione

Mentre i venti della “Primavera Araba” inauguravano un’altra era, nei rapporti tra la stampa libera e il potere, le cose non hanno fatto che peggiorare. Giornalismo fa rima sempre con prigione, come nel caso del celebre editorialista arabofono Rachid Niny che ha trascorso un anno in prigione, da aprile 2011 ad aprile 2012, per una delle sue cronache. Era stato condannato per disinformazione!

Il 17 settembre scorso Ali Anouzla, fondatore del sito Lakome, è stato arrestato per aver pubblicato sul sito un link che rinviava a un video di Al Qaeda sul Maghreb islamico (Aqmi) con un appello al jihad contro il Marocco e il suo re. E’ stato accusato di “aiuto materiale, apologia e incitamento al terrorismo”. Ciò gli può costare fino a 20 anni di prigione. RSF, Amnesty International e, ancora, Osservatorio dei Diritti Umani non sono i soli a inquietarsi per la sorte dei giornalisti indipendenti o dissidenti del Regno. In merito ad Anouzla, il Dipartimento di Stato americano ha chiesto di trattare questo affare in modo “giusto e trasparente”. E aggiungendo: “La decisione del Governo marocchino d’incolpare Anouzla ci preoccupa. Noi sosteniamo le libertà di espressione e di informazione e, come affermiamo da sempre, i diritti universali costituiscono una parte indispensabile di tutta la società”.

Per molto tempo, l’arma del potere per mettere la museruola alla stampa aveva un nome: l’articolo 77 del Codice dell’informazione. Un articolo che permetteva al Primo Ministro di vietare una pubblicazione con una semplice decisione amministrativa. E’ così che Le Journal, Assahifa e Demain sono stati vietati nel dicembre 2000, per decisione del Primo Ministro dell’epoca, il socialista Abderrahmane El Youssoufi, per aver “attentato alla stabilità del Paese”.

Questi tre settimanali avevano semplicemente pubblicato una lettera, attribuita al vecchio avversario Mohamed Basri, che accusava la sinistra marocchina di essere coinvolta nel tentativo di colpo di stato del 1972 contro il re Hassan II, chiamando in causa direttamente il Primo Ministro El Youssoufi. A partire dal 2003, questa legge è stata abolita. E’ stata tuttavia sostituita con altri metodi di censura più pericolosi. I processi e il boicottaggio, da parte di grandi gruppi economici, degli organi di stampa più indipendenti hanno finito col provocare il fallimento di alcuni e di mettere in riga altri…

“I pretesti variano (Sahara, Islam, monarchia, stabilità, sicurezza, ecc.), ma l’obiettivo non cambia mai: far tacere, attraverso la dissuasione poliziesca e giuridica, le voci più credibili e più ascoltate che si autorizzano da sole senza sottomettersi ai diktat del consenso voluto nelle alte sfere”, scriveva il drammaturgo Driss Ksikes, all’indomani dell’arresto del giornalista Ali Anouzla. “Indagare sugli affari fiorenti dei cortigiani? Troppo rischioso. Far scoprire le voci alternative sul Sahara? Temerario. Mettere a nudo i discorsi degli islamisti radicali? Pericoloso.

Far parlare i parenti del sultano? Irrispettoso. Sondare il parere dei governati sul re che li governa? Sacrilegio”, spiega Ksikes, che è stato capo redattore di Tel Quel e pure direttore della pubblicazione del settimanale arabofono Nichane. Anche lui ha avuto a che fare con la giustizia per un dossier dedicato alla satira.

Processo a Ksikes Abdellatif Laabi, scrittore, poeta e saggista marocchino condivideva la stessa opinione quando dichiarava al sito JOL Press del 22 ottobre scorso che “da qualche anno si assiste a un vero accerchiamento dei media. Le voci dissonanti, per non parlare dell’opposizione frontale, non hanno più voce in capitolo nei media pubblici”.

Internet e citizen journalism

Oggi il dissenso è altrove. E’ su Internet. L’esempio più clamoroso dell’influenza grandissima di Internet è l’apporto di un sito, Lakome, così come di Facebook e Twitter in quello che è comunemente chiamato “l’affaire Daniel” (Danielgate). Tutto è iniziato con una grazia del Re, accordata per errore a fine luglio, a Daniel Galvan, un pedofilo spagnolo. L’uomo era stato condannato nel 2011 a 30 anni di prigione in Marocco, per aver commesso violenza sessuale su 11 bambini dai 3 a 15 anni. Il sito Lakone ha seguito il caso, cui gli hanno fatto eco messaggi su Facebook e Twitter. Risultato: migliaia di marocchini sono scesi in piazza a protestare contro questa grazia concessa dal Monarca. Manifestazioni represse molto duramente.

Mohammed VI ritorna sui suoi passi e procede, il 4 agosto, al ritiro della grazia precedentemente accordata a Daniel Galvan. Non era mai successo! All’indomani di questo fatto, il direttore dell’amministrazione penitenziaria, ritenuto responsabile di questo caso, viene licenziato. Il 6 agosto il Re riceve le famiglie delle vittime del pedofilo in segno di solidarietà.

Senza il lavoro del sito Lakome e dei social network, questo caso non sarebbe mai emerso.

Una prova in più che Internet ha sostituito la stampa classica per veicolare le informazioni indipendenti, persino imbarazzanti, per il potere in carica. Sempre più i cittadini praticano il citizen journalism mettendo sul web, su Facebook, Twitter o Youtube, delle foto o dei video compromettenti per gli eletti locali, poliziotti, gendarmi… La resistenza continua!

Quanto alla stampa on line, è ancora in attesa di un inquadramento giuridico ipotetico per promuovere questo settore. Il ministero della Comunicazione sta per elaborare un progetto di legge in merito. Proporrà una regolazione come quella dei Paesi occidentali? O si tratterrà di una legge che darà il colpo fatale all’ultimo bastione della stampa indipendente del Paese? Sarà il futuro a dirlo…
 
Il rapporto dei marocchini con i media

I marocchini che rapporto hanno con i media? Rispetto alla televisione, i dati dell’audience confermano la popolarità dei canali transnazionali arabi, come Al Jazeera o Al Arabiya, soprattutto dopo la Primavera Araba. L’élite francofona segue le televisioni francesi. Le televisioni nazionali marocchine sono apprezzate per le telenovela, soprattutto turche, come pure per le partite di calcio dei club marocchini e gli incontri per la selezione della nazionale.

Quanto alla radio, è il canale Mohammed VI a dominare su tutte le emittenti pubbliche e private: è interamente dedicato al Corano e all’Islam.

Da uno studio realizzato all’inizio del 2011 nell’ambito del “Dialogo nazionale-media-società”, è emerso che “i media marocchini soddisfano solo parzialmente i bisogni dei giovani”. Lo studio, effettuato su un campione di centinaia di giovani tra i 15 e i 29 anni, rivela che tre quarti di quelli interrogati non acquistano né riviste né quotidiani marocchini. Lo studio evidenzia che è Internet il mezzo più usato come fonte d’informazione, poiché, tra i media, è “quello che ispira più fiducia”. Internet e anche citizen journalism. I dati attestano la popolarità dei media sociali.

Facebook, per esempio, contava nel 2012 circa 4,7 milioni di contatti marocchini, di cui il 43 per cento nella fascia 18-24 anni.

E’ dal social network che prendono il via i principali movimenti di protesta prima di materializzarsi nella realtà. A cominciare dal movimento “20 febbraio” che si è formato sui social network o ancora “Freekiss”, un’operazione iniziata da gruppi di internauti su Facebook, per protestare contro l’arresto di due adolescenti, un ragazzo e una ragazza, entrambi di 15 anni, citati per “attentato al pudore”, a Nador, nel nord del Paese, accusati per aver messo su web una foto che li mostrava mentre si abbracciavano. Un appello di adesione alla manifestazione organizzata in loro favore è stato lanciato su Facebook e seguito da un’iniziativa di “Freekiss” (bacio libero), organizzato a Rabat in segno di solidarietà.

immagine allegata











Ali Anouzla, fondatore del sito "Lakome"
 
di Hicham Houdaïfa – Rabat

Traduzione Stefanella Campana

dicembre 2013


 
     
Edizione RodAlia - 01/02/2014
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