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tratto dal libro di Nicola
Sangiorgio “La 'ncantina che odorava di zolfo” (pagg. 39-45)
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Mi sembra doveroso parlare di questa
categoria di lavoratori, ormai scomparsa, dal passato glorioso, che
vive soltanto nei ricordi degli anziani. Il carretto è stato un valido
mezzo di trasporto e possedere un cavallo ed un carretto era segno di
autonomia lavorativa e di buona condizione socio- economica.
Per esercitare il mestiere occorreva munirsi del libretto di
circolazione rilasciato dal Comune che prevedeva le caratteristiche del
carretto al quale veniva assegnata una targa di identificazione.
Il suo utilizzo si sviluppò a cominciare dalla metà dell’Ottocento e
subito assunse un carattere folkloristico, essendo invalso l’uso di
dipingere tutte le sue parti, dagli artistici bassorilievi alle sponde.
Suggestive le scene delle fiancate in cui sono raffigurati episodi dei
“Paladini di Francia”, dei Vespri Siciliani, di Giuseppe Garibaldi,
della Cavalleria Rusticana e immagini della Vergine e di Santi.
Sgargianti le decorazioni pittoriche predominanti il rosso, il verde e
l’azzurro - e i colori dei finimenti del cavallo: pennacchi, piume,
pettorali, lustrini, sonagli, guarnizioni di borchie, lustrini,
fiocchetti, specchietti, pettorali e sottopancia di lana e seta.
Una “casa ambulante” in miniatura, il carretto. Infatti, sotto il
pianale di carico, dove veniva sistemata la merce, pendeva una rete di
corda - detta rituni - che accoglieva il fiasco di
acqua, la
colazione, oggetti personali, attrezzi per la manutenzione, stivali di
cuoio, crusca ed altro; ad un apposito gancio si ancorava la coffa,
contenitore di foglie di palma selvatica, per la conservazione della
biada, e ad un altro la lanterna a petrolio, dondolante a seconda
dell’andatura, la cui fiamma illuminava la strada e segnalava la
presenza alle autovetture; furono installati persino dei
catari-frangenti. Un telone copriva la merce, un mantella cerata
preservava il conducente dalle intemperie.
A seconda della consistenza del fondo stradale, agli zoccoli del
cavallo venivano applicati ferri con chiodi oppure delle scarpe di
gomma alla gamba anteriore e a quella posteriore diametralmente opposta.
Il passo era costante nella zone pianeggianti e lento nell' affrontare
la salita; per contenere la discesa si immobilizzavano le ruote con
robuste corde. Fra l’altro, a seconda della pendenza, il carico veniva
spostato in avanti o nella parte posteriore. Problematiche le
pozzanghere del fondo stradale che affossavano le ruote. Un fatica
immane per il cavallo e per il conducente.
La tipologia del lavoro portava il carrettiere a percorrere le vie
della Sicilia, solitarie e talvolta sinistre, sotto il torrido sole e
le avversità atmosferiche. Essendo costantemente esposto all’azione dei
ladri, quando possibile viaggiava in comitiva e per evitare di essere
derubato del denaro incassato trasferiva la somma a mezzo Ufficio
Postale.
In vista della notte raggiungeva il più vicino paese per trovare
rifugio nel Fondaco e mettersi in sicurezza con il cavallo e il
carretto; tuttavia, nel fondaco si verificavano furti, per cui non si
toglieva le scarpe e per cuscino utilizzava la sacca contenente la
crusca.
E poiché non tutti i gestori dei fondaci preparavano da mangiare,
spesso consegnava della pasta da cuocere, oppure si recava nelle
bettole; nei centri minerari “ ‘ncantina’.
Sorse, così, il modo di cuocere la pasta, “a la carrittera”: con aglio,
olio, pomodoro, basilico e sale. Chi poteva permetterselo conduceva con
sé un giovane aiutante e altro cavallo, detto “balancino”, che
sosteneva il cavallo a superare le asperità della strada e, guidato dal
giovane raggiungeva in anticipo il paese più prossimo per accaparrarsi
il posto al fondaco. Quando richiesto, intervenivano dei carrettieri
della zona a sostenere il collega in difficoltà; ovviamente, dietro
compenso.
Non viaggiava mai privo di merce. Per esempio: se all’andata
raggiungeva Alcamo o Partinico portandovi zolfo, grano, formaggio o
fieno, al ritorno caricava vino per integrare quello prodotto a
Lercara.
Durante questi lunghi tragitti alleggeriva la pesantezza della
monotonia e la solitudine improvvisando stornelli incentrati sul
proprio lavoro o sulla propria ragazza.
A Lercara carretti se ne contavano moltissimi, impegnati nel trasporto
dello zolfo fuso, e del frumento e della farina del mulino Bongiovanni,
situato in fondo alla via Mulino. Transitavano per le vie uno dietro
l’altro come in processione.
Terminata la giornata di lavoro, il carrettiere si recava all'
abbeveratoio o alle fontane per rinfrescare le gambe del cavallo e il
carretto con gettiti d’ acqua prelevata con una bacinella di rame, detta
“scutiddaru” e inumidiva il fieno destinato al cavallo.
Ritornato a casa “spaiava”, cioè, staccava il
cavallo dal
carretto e provvedeva ad ancorarlo accostandolo al muro della propria
abitazione, con le aste alzate e, se necessario, bloccando le ruote con
grosse pietre.
La presenza di tanti carretti diede vita a nuove botteghe di artigiani:
“carrozzieri” per la riparazione dei carretti, e “sellai” per la
confezione dei finimenti e delle bardature, collaborati da giovani
apprendisti.
La possibilità di ingenti incassi, indusse persone facoltose a fornire
il carretto a chi non riusciva ad acquistarlo e ad approntare il
cavallo “al guadagno”, cioè, con la compartecipazione all’utile.
Accanto a questa “industria”, sorsero cooperative di carrettieri che si
aggiudicavano delle grosse commesse, e “imprese” individuali; una di
queste la gestivano i coniugi Giuseppe Tinnirello e Giovanna Di Salvo i
quali disponevano di circa dieci carretti che affidavano a giovani,
assegnando loro le destinazioni e la merce da trasportare e
commerciare. In cambio ricevevano il salario di una giornata.
Questo modo di operare era facilitato dal fatto di disporre di un ampio
complesso abitativo che consentiva il ricovero dei carretti, l’alloggio
degli animali, la conservazione della biada e la fornitura dell’acqua e
del vino. Il tutto supportato da un contabile.
Il carretto divenne obsoleto quando si divulgarono i mezzi di trasporto
merci a motore a tre ruote (Ape e Moto-Ape) e a quattro ruote, per cui
il carrettiere si trasformò in autista e trasferì nel nuovo mezzo il
fascino della coloritura e alcuni finimenti.
Ai nostri giorni il carretto fa parte di sfilate folkloristiche nelle
feste patronali e si presenta sempre più coreografico; i colori vivaci e
l'originalità delle raffigurazioni continuano ad interessare
precipuamente le nuove generazioni.
Desidero concludere questo escursus, riportando una calorosa
testimonianza di Carmela Di Liberto, figlia di Giuseppe, carrettiere."
“Mio padre era Giuseppe Di Liberto, conosciuto come
“Peppe
Ricotta ”, il quale con questo lavoro è riuscito a mantenere la
numerosa famiglia, composta dalla moglie e da nove figli. Un lavoro
pesante e molto pericoloso essendo esposto al sole, alla pioggia e ai
malintenzionati.
Ci raccontava che per raggiungere Castellammare o Menfi impiegava
parecchi giorni. Qui, vendeva zolfo e generi alimentari (cereali,
olive, mandorle). Andava a dormire nei Fondaci e di solito mangiava
pasta condita con aglio, olio e sarde salate, mentre il cavallo veniva
alimentato con crusca, avena o paglia; il suo letto era costituito da
un sacco di paglia.
Alloggiare nei fondaci, anziché per strada, dava sicurezza, perché con
la fame che allora imperava, vi era il pericolo di essere derubato e la
probabilità di ritornare a casa a piedi e senza denaro. Mio padre
“adorava ” il suo carretto e il suo cavallo e ne era orgoglioso. A quei
tempi, possedere un cavallo di buona razza ed un carretto significava
stare bene economicamente.
Purtroppo questo tipo di lavoro costringeva mio padre a stare poco
tempo con la famiglia, ma doveva lavorare tanto per mantenerla.
Successivamente ha sostituito il carretto con una “Moto Ape a tre
ruote”, che per noi piccoli è stata una festa e una gioia immensa, come
se avesse comprato un Tir.
Comunque, continuò ad avere sempre la passione per il cavallo, infatti,
commerciava asinelli di razza e a volte li cedeva in affitto a venditori
ambulanti di frutta e pesce. Questa sua passione e dedizione l’ ha
trasmesso in famiglia, tant’è che ancora oggi conserviamo gelosamente
il suo carretto, considerandolo qualcosa di prezioso perché ci ricorda
il passato e non vogliamo fare sparire la memoria. Mio padre è stato un
grande lavoratore, ci ha insegnato a lavorare facendoci capire che il
lavoro dà dignità all’ uomo e noi figli, seguendo il suo insegnamento,
ci dedichiamo al commercio e trasmettiamo ai nostri figli la passione
per il carretto e per i cavalli”.