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Comunità . Località: ALIA (Sicilia)
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LA GITA A TERMINI CON LO ZIO ATTILIO
( ULTIMA PARTE )
 

 

 

La gita a Termini con lo zio Attilio
da "Giorni vissuti come fossero anni"
memorie aliesi degli anni 30/40  di Liborio Guccione


immagine allegata

panorama di Termini Imerese - bassa


immagine allegata

lo zio Attilio, negli anni '30



(intera ultima parte Audio)



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Il movimento del treno fu la seconda emozione di quell'avventura che mi entusiasmava sempre più. Mi sentivo i muscoli delle gambe come irrigiditi: ero, insomma, un po' teso, attento a percepire tutte le sensazioni che mi giungevano dal movimento del treno. Il mio corpo e il treno si fondevano, erano diventati tutt'uno. 
Notai che le sensazioni che ricevevo ora dal treno erano diverse da quelle che avevo avvertito prima sull'autobus: niente "tosse", niente scossoni; pareva che il treno scivolasse, volasse sopra quelle linee d'acciaio lucido. Ci fu un momento, un attimo in cui provai una certa paura: fu quando il treno, giunto ad una curva, si inclinò, dandomi la sensazione che stesse per cadere in un campo sottostante, e istintiva- mente mi afferrai forte al finestrino e mi volsi verso lo zio
-

"Non aver paura" - mi disse. – "Vieni a sederti qua, accanto a me" -. E io non me lo feci ripetere due volte: abbandonai la stretta e andai, un po' barcollando, instabile sulle gambe per via della corsa del treno, ad accomodarmi accanto a lui. Lo zio mi sorrise e mi domandò: - "Allora, che ne dici... ti piace viaggiare in treno? " - "Mi piace sì, è tutto così diverso di come l'avevo immaginato. Ma è bello, sì è proprio bello! Anche andare a cavallo è bello; ma il treno è un' altra cosa e si fa prima ad arrivare" - aggiunsi ridendo per l'ovvietà dell' affermazione.


-"È naturale che si fa più presto... perché il treno ha più cavalli che lo tirano " - disse ridendo a sua volta lo zio -. Quello che non riuscivo a capire, ma non osavo domandarlo, come facesse quel "cavallo" di ferro ad alimentarsi e che cosa desse origine a quel fumo che penetrava perfino dentro la nostra carrozza. Possono apparire ingenuità, pensieri semplicistici, estranei alla cultura dei bimbi d'oggi, ma non allora. 


Erano domande che si accoppiavano alla semplicità della vita di allora la quale non offriva molte conoscenze a noi ragazzi che vivevamo in ambienti ristretti, chiusi a cospetto del mondo lontano, a tutto ciò che non era nella quotidianità della nostra esistenza relegata in un paese.


E mentre i miei pensieri erano impegnati a districare le curiosità che nascevano da quella esperienza, il treno rallentò la sua corsa e andò a fermarsi davanti a una stazione un po' più piccola di quella di Roccapalumba: io corsi ad affacciarmi al finestrino per vedere cos'altro succedesse. Anche lo zio venne ad affacciarsi e a guardare fuori incuriosito. - "Ora osserva che cosa succede" - mi disse - e intanto mi prendeva in braccio facendomi sporgere dal finestrino perché potessi vedere più lontano, nel punto dove si trovava ferma la locomotiva.


E fu così che vidi che il "cavallo di ferro" stava bevendo al suo abbeveratoio: un lungo braccio metallico dall'alto di una torre cilindrica si proiettava sino alla locomotiva e vi scaricava dentro un flusso robusto d'acqua. Io non capivo, ma lo zio mi venne in soccorso: - "Anche i treni, come le bestie, hanno bisogno di bere per andare avanti" - mi disse. – "Il cibo è il carbone che brucia dentro una grande fornace e dà l'energia necessaria per fare funzionare la macchina, e l'acqua è anch' essa indispensabile, altrimenti la macchina per il troppo calore finirebbe per scoppiare. Dunque, carbone e acqua sono gli elementi indispensabili - oltre a un buon ferroviere - per far camminare il treno".


Io annuii e continuai ad osservare tutto ciò che accadeva attorno alla locomotiva. Dopo poco il treno riprese la sua corsa e noi tornammo a sedere. Ed io che ormai non avevo più nulla di nuovo da scoprire in quel panorama sempre uguale, campi seminati, vigneti spogli e sulla a non finire, appoggiai la testa su un braccio dello zio, e continuai a cullarmi nei miei sogni, a creare nella mia fantasia le tante cose che ancora mi attendevano in quella che io consideravo la più bella giornata della mia incipiente vita. Sentivo tutta l'importanza di quel viaggio e mi consideravo perciò un privilegiato. Chissà, pensai, se gli altri miei compagni di scuola hanno mai visto un treno, se hanno viaggiato come ora io. 


Nessuno mi aveva mai raccontato nulla di simile. Il mio pensiero rimase come sospeso nella fantasia, e cominciai intanto a pensare al tema che avrei fatto al ritorno. E mentre pensavo a ciò che avrei scritto, reclinai il capo e mi addormentai. Fui destato dallo zio che scuotendomi disse, con una voce che a me giunse come da lontano, - "Svegliati, che siamo arrivati". -
(inizio 2^ Audio)

Eravamo, finalmente, giunti a  Termini Imerese , e mi crucciai per essermi fatto cogliere dal sonno e di non avere per questo goduto ancora del resto del viaggio. Il treno era fermo, sbuffava e vomitava fumo davanti alla stazione che, osservai, era più grande e più bella di quella di Roccapalumba. È, infatti, una stazione importante quella di  Termini Imerese, dalla quale si biforcano le due linee ferroviarie principali dell'Isola: quella che volge in direzione di Messina e l'altra, quella che transita per la stazione di Roccapalumba, per le province di Agrigento e Caltanissetta.


Il "nostro" treno riprese la sua corsa, diretto a  Palermo. Era trascorsa oltre un' ora da quando eravamo partiti e già eravamo a destinazione. Era ormai giorno avanzato, rispetto all' alba che avevo lasciato appena sorgente al mio paese, e il sole inondava le case e 1'aria era diventata più calda.


La cittadella di Termini si compone di una parte alta e di una parte bassa: Termini " ‘nsusu" e Termini "iusu" , collegati dalla "serpentina P. Balsamo" ; la parte alta si estende placidamente su quel monte chiamato di S. Calogero, e sembra mirare con godimento da lassù le sue estremità fatte lambire dalle azzurre acque del suo meraviglioso mare.


Uscimmo fuori dalla stazione e ci trovammo davanti a una piazza adornata di alberi e aggraziata da un giardino addobbato con panchine sulle quali c'erano seduti alcuni uomini anziani che godevano del caldo sole che ormai dominava la piazza. lo mi guardavo attorno: cercavo il mare, ma non vedendolo, domandai allo zio:"ma il mare dov' è? "
- "Il mare?..è dietro le nostre spalle; ora ti ci porto e te lo faccio vedere" .- E tenendomi sempre per mano, mi condusse in un luogo da dove ci era possibile vederlo.


Era davanti a noi il tanto desiderato, il sognato mare: un fluttuare d'acqua schiumosa e azzurra che si muoveva senza posa, producendo onde alte e piccole che si andavano a perdere risucchiate dalla spiaggia sabbiosa, o si infrangevano sul molo del porto come se volessero ingaggiare una dura battaglia contro quell' ostacolo di pietra e di cemento. Ero rapito, estasiato da quello spettacolo emozionante e imprevedibile. Avrei voluto correre sulla spiaggia, vedere più da vicino l'acqua, toccarla.


Avanzai di qualche passo, attratto da quello scenario di onde che si muovevano come se una mano invisibile guidasse quel gioco dell'acqua che pareva volersi esibire con civetteria in una danza al suono di una musica che fluiva dal cielo illuminato dal sole. Lo zio mi guardava sereno e compiaciuto e forse un po' orgoglioso per essere stato lui a farmi scoprire in poche ore quelle visioni esaltanti che mi facevano tanto felice: 1'autobus, il treno e ora il mare meraviglia delle meraviglie, e che io sino allora avevo immaginato, custodito solo nella fantasia, scaturita dalla mia mente immatura: una fantasia fatta di sogni e di speranze.


Mi volsi verso di lui e dissi: - "È bello, troppo bello!" - E corsi ad abbracciarlo in segno di gratitudine. – "Andiamo" - mi disse -, prenden domi per la mano. "Ci torneremo ancora prima di ripartire; ora dobbiamo andare in paese".


Lanciai ancora uno sguardo alla distesa immensa d'azzurro e tornammo nella piazza della stazione. Qui lo zio fece un cenno con la mano a un cocchiere che se ne stava con la testa reclinata come se dormisse, a cassetta della sua carrozzella, un cenno di richiamo che fu sufficiente perché vidi infatti il cocchiere alzare in aria la frusta, e la carrozza, tirata da uno smilzo cavallo, si staccò dall' ombra di un albero, dirigendosi verso di noi. 


Osservai che, come tanti fili, si venivano a concentrare sulla piazza, scendendo dall'alto, alcune strade, lungo le quali erano allineate molte case, alcune anche molto alte; alte come non ne avevo mai viste nel mio paese, salvo che il palazzo Guccione a "u rabatieddu" e l'altro palazzo dei Guccione nel quartiere di S. Rosalia.


Salimmo sulla carrozza, tirata dall' ossuto cavallo che pareva dovesse cascare in terra da un momento all' altro. L'uomo che stava a cassetta domandò allo zio: - "dove deve andare?" - E lo zio gli disse l'indirizzo. Il cocchiere alzò la frusta facendola schioccare nell' aria e il cavallo con uno strattone si mosse lentamente e anche, parve a me, di malavoglia. Il cocchiere che era allignato e vecchio come il cavallo, sollecitò con la voce l'animale che si mosse un po' più sveltamente.


Man mano che la carrozza saliva per quelle ripide strade, dovetti ricredermi su quel cavallo: il giudizio che avevo dato sulle capacità di quella bestia era stato ingiusto e ingeneroso, perché quello smilzo cavallo, via via che si inerpicava per quelle strade, la cui pendenza superava quella delle strade di Lalia, rivelava una capacità di resistenza degna di ammirazione; mi smentì quell' animale, tirava da vero campione, tanto che mi venne spontaneo: "però quel cavallino!" - dissi -. Il cocchiere si volse e mi sorrise compiaciuto, orgoglioso di quel suo quattro gambe tutto ossa. ".


" Termini Imerese mi piacque molto, ma ciò che più mi piacque di quella città fu la granita di limone veramente buona, sebbene a Lalia, Nino della gnira Filippa e suo fratello, granita e "pezzetti gelato" li facessero buoni. 


Ma il mio entusiasmo per tutto ciò che stava offrendomi quella piacevole gita, mi faceva trovare tutto buono e in meglio assai di ciò che fino allora avevo avuto: l' entusiasmo governava ormai i miei umori. Tutto di quella giornata per me era bello, anche se a un certo momento cominciai ad avvertire una certa stanchezza che però tenni per me, senza darne a vedere allo zio: che figura ci avrei fatto!? 


Tornammo ancora al mare e questa volta lo zio mi portò sulla spiaggia, proprio sulla sabbia bianca argento; ci sedemmo su una barca che era stata lasciata sulla spiaggia capovolta. Sopra le nostre teste volavano i gabbiani emettendo qualche stridio, mentre sul mare lontano si scorgevano le barche condotte dai pescatori verso i punti più pescosi e dove gettavano le reti, pronte a raccogliere abbondante pesce. Era nota la bontà delle sarde di Termini Imerese.


Nei miei ricordi di quell'indimenticabile gita a Termini, trovo assai viva un'altra immagine: gli orti che in quel territorio erano tanti e ben tenuti, ricchi di ogni specie di ortaggi, come non ne avevo mai visti nelle campagne di Lalia, dove da secoli i contadini praticavano la coltura estensiva, ossia grano, fave, orzo e avena.



A Termini, invece, i contadini si dedicavano alle colture intensive; ortaggi, appunto, che oltre a dare un maggiore utile economico, facevano meno affannosa la loro vita. A Termini i contadini lavoravano e vivevano in modo diverso dai contadini del mio paese: vivevano meno isolati, anche perché avevano con la gente un rapporto commerciale quotidiano, e i frutti del loro lavoro li vedevano ogni giorno.



(inizio 3^ Audio)

 

I contadini dell'interno, invece, dopo la semina, dovevano attendere tutto un anno per vedere compensate le loro fatiche; e non avevano mai certezze sui risultati del loro lavoro: era una vita più ricca di speranze che di certezze. Sino al momento del raccolto il contadino del mio paese, trascorreva il tempo a lavorare, a benedire o maledire, schiavo di quel cielo dal quale dipendeva il risultato delle sue fatiche: la pioggia e il freddo, la neve e la siccità erano fattori determinanti che potevano essere salutari se intervenivano nel giusto momento, o disastrosi se intervenivano nei momenti contrari alle attese del contadino. 



In una parola, era un anno di attesa, affidata alle accidentalità della natura cui il contadino non poteva opporre nulla. Tutti gli anni così; un'attesa convulsiva, confortata dalla speranza che però poteva tradursi anche in disperazione.


Il contadino che coltivava l’orto a Termini, invece, aveva modo di verificare, giorno dietro giorno , i suoi prodotti, la loro crescita, il loro maturare, e poteva intervenire per correggere il corso stesso della natura, convogliandola in favore dei prodotti del suo orto: poteva dare acqua se non pioveva, poteva proteggere i solchi della terra che custodivano il seme o la piantina perché la pioggia o il freddo non li danneggiassero. 


Insomma, non doveva avere alcuna soggezione della natura: il cielo e la terra non sarebbero mai divenuti nemici delle sue fatiche ; Il contadino dell'interno era invece impotente davanti alla natura; la subiva. E forse ciò spiega perché il mestiere del contadino è sempre stato disprezzato, umiliato; e spiega perché molti figli di contadini, appena la nuova civiltà industriale degli anni '50-'60 offrì loro l'opportunità di sfuggire alla secolare disperazione, abbandonarono la terra, senza rendersi conto che a sua volta anche la terra avrebbe abbandonato l'uomo che si sarebbe trovato, come oggi si trova, in una nuova disperazione che la civiltà non riesce a modificare. 


Perché quei giovani contadini, divenuti operai improvvisati, manovali dell'industria, oggi non sono più contadini, ma non sono nemmeno diventati operai dell' era computerizzata.
C'erano voluti secoli e secoli di disperazione, di dura sopportazione per raggiungere l'intesa tra l'uomo, la terra e tutte le leggi,del1a natura. Ma in quegli anni si era riaffacciata agli occhi dei popoli meridionali, resi disperati da un'epoca incerta e insicura, la soIa via d'uscita: l'emigrazione interna ed estera; anzi con una prevalenza di quella interna, rispetto a quella estera. 


Con quali risultati? Mah! È possibile che a livello individuale qualcuno abbia trovato la "sua" soluzione, ed è anche possibile individuare qualche riscontro sociale positivo. Ma non è stata trovata la soluzione all’interno dei problemi che hanno travagliato e travagliano la società meridionale. Con un aggravante: le differenze, la disistima perfino, tra Nord e Sud, non soltanto sul piano economico, ma sul piano umano, si sono accresciute. A un punto di rottura.


Riprendemmo il treno che era già pomeriggio avanzato e io, un po' per le emozioni vissute, un po' per la stanchezza accumulata a forza di girare per quella città, tutta sali e scendi, appena mi fui seduto nello scompartimento, mi addormentai e mi svegliai che eravamo già giunti alla stazione di Roccapalumba. Trovammo pronta la corriera che ci riportò a Lalia. 


Ora il mio paese, anziché vederlo rimpicciolire come quando al mattino me ne allontanavo, lo vedevo crescere, man mano che la corriera avanzava, lo vedevo più distintamente, sempre più vicino: distinguevo perfino le case coi fumaioli dai quali si innalzava il fumo grigio nell'aria. E, francamente, anche questo avvicinarmi al paese mi entusiasmava, mi rasserenava, mi dava conforto dopo una giornata di lontananza. 


Avvertivo una serenità, una pienezza che rendeva lieto, riposante il ritorno alla mia casa dalla quale mi pareva di essere stato lontano da chissà quanto tempo. E mi rallegrava anche il pensiero che il giorno appresso sarei tornato a scuola.


Si concludeva così una giornata della mia vita che aveva segnato il mio ingresso nel mondo, un mondo dove la vita pulsava più intensamente, dove c'era più frenesia, dove il tempo trascorreva più nervoso che al mio paese; così almeno allora mi parve. Ecco, quella gita mi aveva consentito di passare dal particolare a un po' più d'insieme. 


Era cresciuta la mia esperienza, si era irrobustita la mia mente e il mio spirito. Quando toccò ai miei compagni di recarsi in gita collettiva a Termini, non provai malessere, come ne avrei provato se io già non ci fossi andato. Anzi, fui lieto per loro: avremmo avuto un argomento nuovo di cui parlare.Ebbi sempre un buon rapporto con i miei compagni di scuola; e la mia classe, in ispecie, era composta da elementi piuttosto intelligenti.



Faccio sforzi ora per costringere la mia mente a ricordare i loro volti, e di qualcuno ho ancora una qualche immagine un po' sfocata: Gino Cannici, del quale ricordo la bravura nel disegno e il mite e gentile, Gioacchino Cartabellotta che diventerà poi medico. Pietro Guccione, anch'egli diventato medico, Nino Miceli ed altri i cui nomi mi sfuggono. Ah, sì, di un altro ricordo la tragica fine: fu ucciso a coltellate da una donna insana di mente: ne conservo ancora una gran pena. Ma della mia scuola mi sono rimaste alcune sensazioni. 


Ricordo, quando nelle tiepide mattinate di primavera, nel silenzio tutto attorno, da una strada vicina ci giungevano dei suoni, che erano una voce di vita, una voce che non potevi fare a meno di udire. Era la voce del martello battuto dal vicino fabbro sul rovente ferro, tenuto con una grossa tenaglia sull’incudine: un colpo secco, cupo sul ferro infuocato, appena estratto dalla fornace incandescente, seguito da due colpi rimbalzanti, più metallici, più sonori impressi sull’incudine. 


Erano distinguibili questi due ultimi colpi che parevano come fatti cadere per una pausa, durante la quale il fabbro aggiustava il tiro del pesante martello, affinché i colpi successivi servissero a meglio modellare l' oggetto in fabbricazione. E infatti, subito si udivano altri colpi ricadere l’uno appresso all’altro sul ferro ancora caldo, ma ormai in via di stemperatura.


Accadeva a volte, ascoltando i ritmi più frequenti dei suoni, di individuare che a battere fossero due fabbri: erano mastru Vicienzu e il figlio. Segno che si trattava di un lavoro più impegnativo che non i soliti ferri da cavallo. Faceva uno strano effetto negli orecchi quel ritmo serrato dei colpi di martello che giungevano sin dentro la scuola; magari mentre il maestro spiegava le guerre Puniche o una battaglia Risorgimentale. Associavi allora quegli strani suoni metallici all'idea di una battaglia di uomini impegnati nell'uno evento o l'altro, sfidando la morte. 


Ai suoni del martello sull'incudine del fabbro, si associava qualche volta, interrompendo il silenzio del paese sonnolento, l'eco della sega o dei colpi di martello che cadevano sui chiodi che si conficcavano nel legno. E ascoltavi con sospetto il lavoro del falegname: cosa stava costruendo, un mobile per una nuova coppia di sposi, o allestiva frettolosamente un "tabutu" ? Eppure il suono non era lamentoso, non era lugubre. Allora costruiva per la vita, non per la morte. E ti rincuoravi. 



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Edizione RodAlia - 06/03/2014
 
     
 
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